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Il Vangelo di Domenica 7 maggio. A cura di Donato Calabrese

5/5/2017

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IV Domenica di Pasqua
(Giovanni 10,1-10)

«In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo:  «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
La Storia della Salvezza  è ricca di immagini e di simboli relativi al Pastore, una figura non molto considerata nel nostro mondo, ma che, nella lingua figurata di tutto l’Oriente antico indicava, in maniera popolare, il re e gli altri capi del popolo, specialmente come salvatori e liberatori nel senso religioso. 
Anche nella Bibbia troviamo spesso presente il tema del pastore, associato a coloro che sono a capo del popolo di Israele.
Attraverso la voce dei profeti, Dio si rivela come il vero, autentico Pastore di Israele. Come Colui che guida il suo popolo nei tempi difficili della sua storia, specialmente quando il popolo è oppresso dalle cattive guide, dai cattivi governanti e pastori. 
Sono i profeti Geremia (Ger 23), e soprattutto Ezechiele (Ez 34), a ricorrere spesso all'immagine del Pastore, non cessando di inveire contro i falsi pastori di Israele, i capi del popolo, che sfruttano a loro profitto il gregge di Dio. 
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“Attraverso i suoi profeti Dio annuncia che non abbandonerà il suo gregge alla rovina totale; riprenderà personalmente il suo popolo e disporrà l'invio di un Pastore eccezionale che amerà davvero il suo gregge e lo condurrà alla salvezza definitiva. In tal modo il tema del pastore acquista durante l'esilio e nell'immediato post esilio Babilonese, nei secoli quinto e quarto avanti Cristo, un significato che si riferisce agli ultimi tempi, quelli del Messia. Allora si riveleranno la fedeltà eroica del Pastore trafitto per il suo gregge e la fedeltà del gregge purificato verso il suo Pastore. Si prepara, così, la missione di Gesù «Pastore grande delle pecore». Che salva il suo gregge «in virtù del sangue di un'alleanza eterna»(Eb 13,20)” (Cfr. Dalmazio Colombo, Pastore e gregge: da Jahvè a Gesù, in Storia di Gesù, Rizzoli, vol 3, p. 978.).
Nella pienezza dei tempi, Gesù Cristo, il Figlio di Dio rivelato, realizza, finalmente, le antiche profezie che preannunciavano che Dio stesso avrebbe guidato, come un vero Pastore, il suo Popolo verso la salvezza.
E se nei Vangeli Sinottici, posti per iscritto da Marco, Matteo e Luca, vi è una sola allusione alla figura del Buon Pastore (Cfr. Mc 6,34), nel brano evangelico di Giovanni, che ci interessa in questa domenica, Gesù si presenta in prima persona come il Buon Pastore, come vero Pastore di Israele, dando al Suo Popolo la suprema prova dell'Amore che si Dona immolandosi totalmente per la Salvezza dell’umanità intera. Così Egli salva il suo popolo “in virtù del sangue di un'alleanza eterna”, come afferma l’autore anonimo della lettera agli Ebrei (Eb 13,20). 
Veniamo alla riflessione sul testo evangelico di Giovanni.
La parabola detta da Gesù, inizia con tre parole: la porta, il pastore e le pecore. La porta delle pecore ha una particolare evidenza fin dalla prima frase di Gesù, che si identifica due volte con essa. La porta definisce il pastore autentico per queste tre ragioni: il vero pastore entra per la porta del recinto, si avvicina alle pecore chiamandole per nome, e quando ha fatto uscire tutte le pecore, si pone innanzi a loro, precedendole, ed esse lo seguono lungo i sentieri che portano ai pascoli.

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Chi conosce l’ambiente palestinese non può non essere d’accordo con quanto scrive Klaus Wengst, citando un’esperienza vissuta da C.T. Wilson in medio oriente e descritta nel suo libro: Peasant Life in the Holy Land, Lon­don 1906, 164ss.: “Alla sera circa sei o sette greggi furono condotti dentro l'accampamento per proteggerli. Al mattino, quando arrivò il tempo di portare fuori le loro pecore al pascolo, i pastori non cercarono, ad esempio, di segregare il loro gregge dalla massa delle pecore e capre, che erano confusamente sparse per tutto l'accampa­mento. Ognuno andò piuttosto qualche passo  dietro l’anello costituito dalle tende e, stando lì in piedi, lanciò a turno il suo richiamo particolare. Subito la massa delle pecore e delle capre si mise in movimento e, mentre i pastori continuavano a lanciare il loro richiamo, i vari greggi si costituirono da soli. Tutti uscirono dall’accampamento andando nella direzione della loro rispettiva guida, nel giro di cinque minuti nessuna pecora e nessuna capra era più nello spazio recintato e poco dopo potei vedere come i vari greggi procedessero in direzione dei quattro punti cardinali, seguendo ognuno il proprio pastore” (Klaus Wengst, Il Vangelo di Giovanni, Ed. Queriniana, 2005, 407).
Il contrasto tra il ladro operante nella notte e il pastore operante al mattino appare ancora più evidente nel tema delle tenebre e della luce, tanto caro all’evangelista. Non nel buio della notte, quando è l’ora del ladro e del mercenario, ma alla luce del giorno, giunge il vero Pastore, e le pecore lo seguono fedelmente, attirate dal suo richiamo particolare che lo distingue dagli altri pastori.
Addirittura il pastore, che conosce le sue pecore, le chiama per nome, ad una ad una. Ma l’iperbole è possibile solo nell’applicazione del Popolo di Dio, al quale fa riferimento Gesù, che ci conosce uno per uno.
C'è un filo invisibile, un’interazione, cioè uno scambio di attenzioni, tra le pecore ed il loro Pastore. Così come è ancora più profondo il legame che fa sentire ad ogni cristiano il “richiamo del Pastore”, ovvero il desiderio nostalgico di Gesù: l’aspirazione struggente di sentirlo presente e vivo nella sua vita. Un sentimento che le anime mistiche hanno saputo intimamente dilatare fino a farne lo scopo primario della propria vita, il vagheggiamento totale del loro amore. Scrivendo dalla sua Pietrelcina, a Padre Agostino da san Marco in Lamis, così esprime, Padre Pio, il dolce sentimento di abbandono tra le braccia di Gesù: “Di me che debbo dirvi? Una lotta continua deve l’anima mia sostenere. Non vi veggo altro scampo che abbandonarmi tra le braccia di Gesù, sulle quali bene spesso Gesù permette che mi addormenti. Beati sonni! Felice ristoro sono all’anima per le lotte sostenute” (PADRE PIO DA PIETRELCINA, Epistolario, I, Edizioni Padre Pio, San Giovanni Rotondo, 1992, 485).
Ognuno di noi sa che può fidarsi di Gesù.  È lui il Pastore buono, l’unico Pastore che guida noi, che siamo il suo gregge ed il suo Popolo, per il giusto cammino. E a lui si riferisce la Scrittura Sacra, la Bibbia, quando recita nel salmo 23: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (Sal 23,1-4
).

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