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Il Vangelo di Domenica 28 maggio. A cura di Donato Calabrese

26/5/2017

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ASCENSIONE DEL SIGNORE
(Matteo 28,16-20)

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
La parola Ascensione richiama subito i due racconti di Luca dedicati alla scena in cui Gesù ascende al Padre. Il primo è presente negli ultimi versi del Vangelo di Luca, e descrive l’ascensione di Gesù al cielo dal monte degli Ulivi. Il secondo racconto inaugura, invece, il libro degli Atti degli Apostoli, ed è il testo della prima lettura di questa domenica.
Appare chiaro che l’evangelista intende iniziare gli Atti degli Apostoli con lo stesso tema col quale termina il Vangelo, e quindi considerando i suoi due libri come un’Opera sola. Matteo, invece, descrive l’ultima apparizione di Gesù ai discepoli, chiusura del suo Testo, situandola in quella amata Terra di Galilea che riveste un ruolo molto importante nel suo vangelo. È nella Galilea delle genti che Gesù ha proclamato il Suo inimitabile Messaggio di amore e di salvezza, ed è dalla stessa Galilea delle genti che la buona novella deve essere diffusa a tutti i popoli.
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Sono poche e scarne le parole offerte dalla liturgia nel Vangelo di questa Domenica di Ascensione del Signore. Ciò che colpisce subito è che tali termini sono pronunciati da Gesù “sul monte”. E noi sappiamo quanto sia rilevante tale immagine nella Bibbia e nel pensiero dello stesso evangelista.
Il monte ci ricorda il Sinai. Quindi è il luogo della rivelazione di Dio, che dona la Torah, la Legge, ad Israele per mezzo di Mosè.
Su un rilievo poco lontano dalla riva occidentale del Mar di Galilea, Gesù  ha donato il sermone della montagna, con la Legge del Cuore racchiusa nelle Beatitudini.
A chiusura del Vangelo di Matteo, Gesù dà appuntamento ai suoi discepoli su un monte di Galilea. Ma nulla ci impedisce di pensare che le sue ultime parole siano pronunciate proprio lì: sul colle delle beatitudini. Infatti, c’è un profondo legame tra questa apparizione di Gesù e quella di Dio sul monte Sinai.
A Mosè, salito sul monte, il Signore dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). 
Agli Undici, Gesù dice:  «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). 
Dio affida l’incarico missionario a Mosè: “Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” (Es 3,10).
Gesù affida la missione universale agli Undici: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).
Dulcis in fundo, Dio dice a Mosè: “Io sarò con te... “ (Es 3,12).
Gesù dice la stessa cosa agli Undici: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Quel Gesù che appare per l’ultima volta agli apostoli sul monte di Galilea è lo stesso Dio che si è rivelato sul monte Sinai.

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Qui, su un monte della Galilea, che potrebbe benissimo identificarsi in quello delle beatitudini, Gesù invita gli Undici ad annunciare la Buona Novella a tutto il mondo, e, quindi, a battezzare nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo.
Alcuni autori attribuiscono questa formula all’evangelista Matteo, che l’avrebbe introdotta, nel suo Vangelo, per influsso dell’uso liturgico delle prime Comunità cristiane. E infatti, risulta difficile ammettere questa formula nell’ambito della comunità ebraica, che è monoteista. Ma la natura della formula è talmente straordinaria che difficilmente avrebbe potuto imporsi, nella comunità cristiana, se la sua origine non fosse da ricondurre alla personalità eccezionale di Gesù (José Miguel García, La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, Biblioteca Universale Rizzoli, Quarta edizione    2005, 306).
Quindi l’annuncio Trinitario è di Gesù. Ma si comprende che esso va di pari passo con qualcos’altro che permetta allo Spirito di Dio di accogliere e far crescere il germe dell’Annuncio, in modo che la Vita di Dio si comunichi ad ogni umana creatura. E allora, insieme con la Buona Novella ci deve essere il Battesimo.
Col Battesimo inizia il contatto personale e profondo con Gesù; si fa esperienza diretta di Lui, stabilendo un rapporto vitale, come i tralci della vigna ricevono la vita dall’albero della Vite. È possibile riconoscere questo legame nelle stesse parole di Gesù, situate, alla fine del racconto evangelico: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
È la sua Promessa. Il suo essere Presente. Non una presenza esclusivamente spirituale. Egli è Presente in tutti coloro che sono stati battezzati nella Trinità. Egli è Presente in tutti i luoghi dove due o più persone sono unite nel suo nome: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). È lo stesso evangelista Matteo a ricordarcelo. Gesù è Presente dove la Chiesa lo Proclama e lo Invoca. Quindi, è presente nella liturgia e soprattutto nel memoriale della sua Cena: la Santa Messa. E qui la sua diviene una Presenza Sacramentale. La Sua Viva Presenza.
Ma a noi cristiani spetta la sfida più ardua: rendere credibile e visibile, con la nostra vita e con la forza dello Spirito Consolatore, il messaggio che Cristo ci ha lasciato. Per farlo la nostra deve essere una vita vissuta per Lui, con Lui ed in Lui. Perché solo Lui, Gesù, il Cristo, può veramente dare un Senso alla nostra esistenza.
E termino con quella espressione che esprime plasticamente la struggente nostalgia di Cristo e che chiude definitivamente la Divina rivelazione. È l’ultima parola della Bibbia cristiana: Maranatha!. Vieni Signore Gesù.

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