III DOMENICA DI QUARESIMA |

Il Rabbi di Galilea prende lo spunto da questo fatto sanguinoso, oltre che da un grave incidente come la caduta della torre di Siloe con la morte di diciotto persone, per dare degli insegnamenti che vanno oltre la cronaca del tempo, e raggiungere una portata definitiva ed universale. Partendo dalla strage nel tempio, voluta da Pilato, Gesù accenna anche ad un altro incidente avvenuto a Gerusalemme: la caduta della torre di Siloe su diciotto persone che stavano nei pressi o all’interno.
Secondo il pensiero comune del popolo ebraico, queste disgrazie sono considerate alla stregua di un castigo di Dio. Ma Gesù rivede radicalmente tale giudizio, lasciando capire che non c’è relazione diretta tra calamità e colpa. Piuttosto ogni dramma, ogni situazione di grande sofferenza, dovrebbe indurre ad una maggiore riflessione sul senso della vita umana, riconducendo tutto al progetto di salvezza dell’uomo, da parte di Dio, ed alla risposta dell’uomo a tale proposta.
Gesù dice: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?”.
Chiarito, quindi, che le sventure e le avversità non sono un castigo di Dio per i peccati degli uomini, Gesù afferma che la stessa morte fisica dell'uomo non è un problema di fronte alla morte dello Spirito, che è la rottura del rapporto con Dio. Ecco perché dice esplicitamente: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.

Gesù richiama, i suoi ascoltatori, ad una conversione che riguarda ognuno, affinché cambi radicalmente i modi e la direzione di tutta la sua vita: nelle motivazioni, negli atteggiamenti e negli obiettivi fondamentali. Ma, nello stesso tempo implica tutta la società, affinché riformi, radicalmente, i suoi fini e valori comunitari, come scrive James D.G. Dunn.
Con l’insegnamento della splendida parabola del figliuol prodigo o figlio ritrovato, Gesù ci darà, in seguito, la migliore illustrazione possibile di questo tipo di ravvedimento e di conversione.
L'invito alla Conversione, che echeggia fortemente in questo cammino di Quaresima, ci deve spingere, cari amici, a vivere in un modo nuovo il nostro essere cristiani e la nostra vita. Altrimenti, restiamo sempre gli stessi, fossilizzandoci nella nostra dimensione umana, senza alcuna tensione etica verso il Bene assoluto, che è Dio.
Nell’idea originale di Gesù, convertirci, cioè “tornare indietro, ritornare”, significa, infatti, dare una bella scossa all'uomo vecchio che è in noi, per guardare in avanti, verso l’uomo nuovo, l’uomo perfetto, ricreato dallo Spirito di Cristo.
Per ora Gesù ci invita con la Sua Parola, a convertirci. Con la Pasqua di risurrezione, Egli lo farà col Dono dello Spirito.

Rinnovarci, e soprattutto col cuore per pienamente la nostra dimensione umana, essere veramente noi stessi, cioè portare frutto. Ecco, portare frutto, non come il fico della parabola del fico sterile, narrata da Gesù, e che abbiamo ascoltato nella seconda parte del vangelo: Nella storia di Ahiqar (attestata già nel secolo V a.C.), si dice: “Figlio mio, tu sei come un albero che non dava frutto, benché sorgesse vicino all’acqua, e il suo padrone fu costretto ad abbatterlo. Ed esso gli disse: «Trapiantami, e se nemmeno allora io darò frutti, abbattimi». Ma il suo padrone gli disse: «Quando stavi presso all’acqua, tu non hai dato frutto, come vuoi darne stando in un altro posto?» (Citato da Joachim Jeremias, Le parabole di Gesù, Ed. Paideia Brescia, 1973, 209s...).
Gesù utilizza questo racconto popolare, diffuso in varie versioni (Un’altra versione è quella citata da Gerd Theissen, Annette Merz, Il Gesù storico, Ed. Queriniana, 1999, 414.), e di cui sicuramente è a conoscenza, apportando un suo personale cambiamento alla conclusione: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?”.

In fondo se per Gesù, quella dell'albero di Fico che non porta frutto, è immagine del popolo di Israele che per tre anni - i tre anni della parabola possono alludere alla durata del ministero di Gesù, come risulta dal quarto vangelo – non ha saputo accogliere il Cristo arrivando a rifiutarlo, nelle generazioni successive, e quindi giungendo fino a noi, la parabola del fico infruttifero diviene espressione plastica di quella che può essere la nostra vita senza frutto, senza apertura agli altri, senza disponibilità verso i problemi del prossimo. Ciò avviene perché siamo lontani dall’acqua viva, che è Cristo. E questa lontananza ci può condurre lontano, molto lontano da Lui, dove sarà più facile sperperare il bene ed i beni che abbiamo in noi, vivendo da dissoluti, chiusi in noi stessi, nei nostri interessi personali, oltre che nella nostra indifferenza verso gli altri. Siamo come quel fico che vive per sé stesso e non per gli altri ed è destinato ad essere tagliato e bruciato.
Ma abbiamo sempre tempo per “tornare indietro”, per porre le nostre radici nell’acqua viva che è Cristo Gesù. In tal caso dobbiamo dire a Gesù: Signore, Dammi da bere la tua acqua! Si, Signore, Tu sei l’acqua viva, ed io bevendo di quest’acqua, sono sicuro di non allontanarmi mai da Te, perché questo fiume d'acqua viva scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello (Cfr. Ap 22,1).
Perciò, insieme col salmista, voglio bere anche io a quest’acqua viva e pura, dicendo: “Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?”(Sal 41,2-3).