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Il Vangelo di Domenica 27 maggio. A cura di Donato Calabrese

24/5/2018

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DOMENICA DOPO PENTECOSTE
SANTISSIMA TRINITÀ
(Matteo, 28,16-20)

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro:  «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Il brano evangelico di questa domenica, Solennità della Santissima Trinità, è ricco di significati, in quanto pone, sulle labbra stesse di Gesù Risorto, “la più precisa confessione di fede trinitaria del Nuovo Testamento” (Settimio Cipriani, Illuminati dalla parola, anno B,  Ed. Paoline, seconda edizione 1983, p. 266): “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”.
È vero che queste parole, secondo alcuni esegeti, appartengono a quei testi di Matteo che hanno subito un ampio rifacimento redazionale (Gerd Theissen, Annette Merz, Il Gesù storico, Ed. Queriniana, 1999, 49), influenzato dall’uso liturgico battesimale, ma è fuor di dubbio che esse siano fedeli alle Parole ed alle indicazioni di Gesù. Infatti, “La natura della formula è talmente straordinaria che difficilmente porrebbe imporsi nella comunità, se la sua origine non fosse da ricondurre alla personalità eccezionale di Gesù” (Cfr. José Miguel García, Il protagonista della storia, Nascita e natura del cristianesimo, RCS Libri, ottobre 2008, 305).
Dopo questo doveroso preambolo, veniamo alla riflessione sul testo evangelico, partendo proprio dai versi iniziali: “Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”.
L’anonimo colle di Galilea che fa da cornice geografica al testo evangelico evoca subito la teologia del monte, tanto cara all’evangelista Matteo, che scrive per i cristiani ebrei.  Sappiamo, infatti, che,  nel linguaggio Biblico, il monte è il luogo per eccellenza della rivelazione di Dio, com’è avvenuto per Mosè (Cfr. Es 3,1; Dt 1,6;4,10;4,15;5,2;28,69) ed Elia (Cfr. 1Re 19,8-14), cioè i due grandi personaggi biblici che rappresentano la Torah, cioè la Legge di Dio, e i Profeti. Non a caso, Mosè ed Elia sono presenti sul monte anonimo della trasfigurazione di Gesù, quando lui si manifesta nella sua divinità. E il monte non definito di questo brano, potrebbe essere proprio quello della trasfigurazione, forse il Tabor, considerato che la tradizione unanime della chiesa primitiva ha situato tale avvenimento proprio su questo colle. Ma potrebbe essere anche il cosiddetto colle delle beatitudini, dove Gesù ha donato la nuova Legge, con il sermone del monte, che racchiude appunto le celeberrime beatitudini evangeliche.
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A conferma dell’alto valore simbolico del monte nel linguaggio della Bibbia, nella tradizione rabbinica (Trattato Tehillìm (= Lodi/Salmi/Preghiere) del  Talmud) si dice che alla fine del mondo, nel tempo del Messia, Dio farà scendere la  Gerusalemme celeste (Cfr. Ap 21) su quattro monti: il Tabor, l’Hermon, il Carmelo e il Sinai, simboli dei quattro angoli della terra da cui Dio aveva raccolto un pizzico di polvere per creare Adamo e su cui radunerà i dispersi della fine.
Matteo scrive che su un monte della Galilea Gesù convoca gli undici discepoli, i quali gli si prostrano innanzi. Ma “alcuni dubitavano”, precisa l’evangelista. Un dubbio che può essere interpretato, forse, con le perplessità e le paure dei discepoli di fronte all’evento misterioso, anche se sfolgorante, della risurrezione di Gesù. Gli stessi dubbi che appaiono in altri momenti in cui alcuni dei discepoli non recepiscono appieno la realtà della risurrezione, come appare nell’episodio di Tommaso (Cfr. Gv 20,25ss.).
Se è vero che “Il passaggio decisivo e definitivo a una comprensione di Gesù come Messia e Figlio di Dio è avvenuto proprio con la risurrezione” (Michele Mazzeo, I vangeli sinottici, Introduzione e percorsi tematici, Paoline Editoriale Libri, 2001, 60), i dubbi sottolineati dall’evangelista possono appunto riferirsi all’incomprensione di un Evento che travalica il semplice discernimento umano e rientra nel mistero. Parlando della risurrezione di Gesù nel  programma televisivo VIVERE LA SPERANZA, presente on line su Telebene tempo fa, il teologo don Raffaele Pettenuzzo ha detto: “Un cadavere che, da morto, riprenda vita, è qualcosa che sconvolge la ragione, e seppure l’evento storico c’è, perché lo vedono le donne, gli apostoli, e i discepoli di Emmaus. Però la ragione che vorrebbe toccare quello che è avvenuto in quel momento, deve fare un salto, che è il salto della fede. È la problematica e il dilemma tra storicità e mistero, perché il mistero, che è la risurrezione stessa di Gesù, è entrato nella storia, e fa scacco matto alla ragione. E se la ragione non è illuminata dalla fede, anche ciò che è evento storico è difficile da accogliere” (Don Raffaele Pettenuzzo, teologo e filosofo, La Risurrezione di Gesù: indizi, prove, e testimonianze, in Telebene, la televisione web cristiana.
“E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»”.
Battista Mondin ha scritto: “L’autenticità di queste parole di Gesù Cristo non può essere messa in dubbio in quanto sono state pronunciate dal Risorto, perché il Risorto  non è meno storico, ma semmai più storico del Gesù prepasquale” (B. Mondin, Cristo salvatore dell’uomo, ESD, Bologna, 1993, in Battista Mondin, La Trinità mistero d’amore, Trattato di teologia trinitaria, Edizioni Studio Domenicano, 1993, 79). “è interessante osservare, per comprendere appieno la valenza trinitaria del testo, che i nomi delle tre persone sono congiunti da una «e», ripetuta due volte e questo suggerisce che le persone appartengono allo stesso ordine ontologico, e sono perciò dotate della stessa e unica natura divina…

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Gesù Cristo rivela il mistero trinitario ma non lo definisce. Sia per parlare del Padre e dello Spirito egli non introduce espressioni nuove, titoli nuovi, nomi nuovi: tutto il suo vocabolario proviene dall’Antico Testamento. Ma Gesù lo sottopone ad applicazioni nuove così da fornire una perfetta identificazione del volto del Padre, del volto del Figlio e del volto dello Spirito Santo… Appartiene al Padre la potenza, la misericordia, la provvidenza; appartiene allo Spirito Santo la comunicazione della grazia e la partecipazione alla vita divina; mentre al Figlio compete l’intimità col Padre e l’invio dello Spirito. Tuttavia fra tutti e tre i membri della Trinità circola la stessa vita, che è vita di perfetto amore. Lo scambio reciproco, la comunicazione è totale. Tutto quello che è del Padre è anche del Figlio e dello Spirito” (Battista Mondin, La Trinità mistero d’amore, Trattato di teologia trinitaria, Edizioni Studio Domenicano, 1993, 79-80). Così Battista Mondin, nel suo trattato di teologia trinitaria.   
Quello della Trinità Divina è un grande mistero d'amore, come ci rivela Giovanni nel suo Vangelo, “dove sottolinea continuamente l'intima comunione, in parole, azione ed essere, tra Padre e Figlio(Cfr. Gv 17,20-26). In Giovanni - scrive il teologo Gesuita Paolo Gamberini - questa unità del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio è data dall'amore, dallo Spirito/Paraclito che comunica la Verità ai credenti. Anche qui Giovanni non parla di Trinità ma di comunione d'amore tra le prime due persone ad opera della terza" (Paolo Gamberini, Un Dio relazione, breve manuale di dottrina trinitaria, Città Nuova Editrice, 2007, 22).
Un mistero d’amore che coinvolge l’uomo nella sua totalità: mente, volontà, cuore. La mente che richiama il Pensiero del Padre Celeste; la volontà, che evoca il completo abbandono del Figlio di Dio all’idea del Padre, volta alla salvezza della sua creatura; il cuore, che congiunge il cielo con la terra, e va offerto totalmente al Creatore, per mezzo dello Spirito Santo. È lui, il Divino Paraclito, il consolatore di ogni uomo. È Lui che Cristo Risorto dona al mondo  per rinnovare dall’interno tutta la creazione.
Un rinnovamento che comincia proprio col Battesimo, voluto da Gesù, come appare nelle solenni parole del Vangelo.
Dal Battesimo di ogni creatura scaturisce l’uomo nuovo, non più schiavo del peccato, ma finalmente restituito all’antica dignità originale. E grazie all’adozione a figlio, per mezzo di Gesù, ognuno può veramente chiamare Dio col dolce e tenero nome di Papà nostro, che sei nei cieli...
Dal buio alla luce, dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà dei figli di Dio. Questo è il passaggio di ogni uomo che si lascia ammaestrare dalla Parola di Dio e ricreare a nuova vita, nello Spirito Santo.
Ma l’ammaestramento, cioè il “fare discepoli”, non conduce ad una semplice conoscenza di Dio. Tutt’altro. Biblicamente la conoscenza è seguita dall’amore. E allora la conoscenza della Parola di Dio, donata in pienezza da Gesù, porta all’amore. Quell’amore che Gesù stesso continua a donarci restando per sempre in mezzo a noi, fino alla fine del mondo. Sono le Sue Parole: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Mt 28,20).

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Queste parole così rassicuranti, ci fanno comprendere che Gesù sarà sempre in mezzo a noi. Una presenza che si realizza per mezzo del suo Spirito e che non si manifesta solo in alcuni momenti, ma è sempre viva, reale, palpitante. E così sarà, fino alla fine del tempo.
Ma noi abbiamo un segno di questa Presenza di Gesù, in mezzo a noi: l’Eucaristia che parte dalla Trinità e ci riconduce alla Trinità.
La Trinità è l’artefice dell’Eucaristia. Il Padre che ha tanto amato il mondo da dare il suo Unigenito per salvarlo. Il Figlio ha tanto amato gli uomini da dare per essi la sua vita. Il Padre e il Figlio hanno voluto unire così intimamente a sé gli uomini da infondere in essi lo Spirito Santo, perché la loro stessa vita dimori nei loro cuori.
È grazie alla risurrezione di Cristo che l’Eucaristia è accessibile agli uomini di tutti i tempi. È, infatti, la potenza divina manifestata nella risurrezione che lo invia al mondo e glielo rende presente. Ed è questa potenza divina che trasforma il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, rendendolo, così, presente ed attuale in tutte le epoche ed in tutti i continenti: “La carne di Cristo – come diceva Pascasio Roberto – è divenuta Eucaristia in virtù della risurrezione” (Pascasio Roberto, De corpore et sanguine Domini, V. 24 CCL, CM, 16,32, citato da G. Martelet, Résurrection, eucaristie et génèse de l’homme, Descléè 1972, p. 142, in François – Xavier Durrwell, l’eucaristia, sacramento del mistero pasquale, Ed. Paoline, 1982, 83 s..).
Gesù Risorto riceve, dal Padre Celeste, la Potenza di trasformare, il Pane ed il vino. La trasformazione eucaristica è, quindi, “Un effetto eminente dell’azione paterna che, nello stesso tempo, genera Cristo nel mondo e fa sussistere il mondo «in Cristo e in vista di Lui».    Dio riporta la generazione primitiva al suo termine, il Cristo pasquale, in questi due nobilissimi frutti della terra, il pane e il vino. L’eucaristia è istituita nell’onnipotenza del Padre che genera Cristo nel mondo, creando e salvando il mondo” (François – Xavier Durrwell, l’eucaristia, sacramento del mistero pasquale, Ed. Paoline, 1982, 84 s.).
“L'Eucaristia orienta alla Trinità, perché la Trinità nell'Eucaristia rende efficace nel modo più completo in via, il «mysterium», ossia il piano della salvezza” (Riflessione del Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, José Saraiva Martins, XLVII Congresso Eucaristico Internazionale, Eucaristia ed Evangelizzazione).
Desidero concludere la presente riflessione con questa preghiera di San Colombano abate (+615): “O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri.

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Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo.
Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne. Fa' che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio. Nella visione dell'amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo da te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. 
Dégnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all'infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore» (Ct 8,7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen” (San Colombano, abate, Istr. sulla compunzione, 12, 2-3; Opera, Dublino 1957,112-114).

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