XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO |
È certamente un momento decisivo dell’attività del Rabbi di Nazareth: lo spartiacque della sua missione pubblica. La vicenda, infatti, è situata quasi al centro di due poli: l’azione di Gesù in Galilea, con la predicazione del Regno accompagnata dai miracoli, e l’epilogo a Gerusalemme.
L'episodio, storicamente indiscutibile, narra di un momento cruciale, decisivo, della storia di Gesù. L’entusiasmo delle folle di Galilea è andato gradatamente diminuendo. Certamente è caratteristica della specie umana, quella di non saper cogliere i messaggi decisivi della Storia e quindi non sapersi decidere per ciò che è bene e bello. E forse non è errato pensare a qualche altro fattore che può aver determinato un certo allontanamento delle folle. Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, un clima di euforia collettiva si era impadronito delle folle di Galilea, intenzionate a farlo Re. Ma la reazione di Gesù non è stata conforme alla volontà popolare, di cui, forse, gli stessi parenti del clan, si sono fatti portavoce. E allora quelle folle che lo avevano accolto, ora non lo seguono più. C’è solo un “resto” che lo segue, ed è, ancora una volta, il popolo degli “anawim”, gli umili di Israele.

Dobbiamo subito pensare che la domanda, così com’è rivolta ai discepoli, sia più che altro una provocazione: un voler sapere le loro risposte, visto che hanno girato molto tra la gente, prima di appartarsi e giungere qui a Cesarea di Filippo.
Presumibilmente, Gesù vuole rischiarare le menti dei suoi apostoli, ancora pervase da quei sogni di ambizione da lui frustrati in seguito alla moltiplicazione dei pani.
E allora, già nella domanda presenta loro la figura del Figlio dell’uomo. È un titolo che significa “uomo”, e qui vuol dire “Io”, o “Me”. È citato 79 volte in tutti e quattro i vangeli, oltre ad essere presente negli Atti degli Apostoli (At 7,56) e nella lettera agli ebrei (Eb 2,6).
Ma ritorniamo alla domanda cruciale di Gesù, formulata nel territorio di Cesarea di Filippo: “La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?”.
Il gruppo dei discepoli risponde: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”.
Dalle risposte possiamo dedurre quale grande credito abbia accompagnato la persona e la missione del Nazareno. Elia è considerato il più grande dei profeti ed accostato a Mosè tra i grandi di Israele. Geremia, di cui sotto molto versi Gesù condivide la missione profetica segnata dall’incomprensione e dal rifiuto, è stato un altro grande dei profeti di Israele. Per non parlare di Giovanni Battista, decapitato da Erode Antipa e di cui ancora forte è l’eco dell’invito al rinnovamento.
Ma Gesù, dopo aver ascoltato il parere della folla, chiede ai suoi stessi amici: «Voi chi dite che io sia?».
Pietro gli risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Nel vangelo di Marco, di cui Matteo segue lo schema narrativo ed anche la tradizione, la risposta di Pietro è più lapidaria: «Tu sei il Cristo». Matteo, si sa, mostra una Cristologia più elevata rispetto a Marco, ma questi rivendica una maggiore antichità rispetto a lui.

Quello di Pietro è un appellativo pieno di equivoci, prestandosi ad interpretazioni politiche e nazionalistiche, da parte delle folle esaltate di Galilea. Ecco perché Gesù proibisce di parlarne “apertamente”.
Fa riflettere molto, e costituisce un importante motivo di discussione, la risposta di Gesù a Pietro, dopo che questi lo ha riconosciuto come il Cristo, il Figlio del Dio vivente: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Questo passo, rivela un indubbio retroterra semitico, offrendo, quindi, una valida garanzia di autenticità storica. Lo dimostra il nome aramaico Kepha, che corrisponde al greco Pétros/pétra, e quindi al nostro nome di Pietro, che già suggerisce un’origine gesuanica. C’è, poi, la formula “porte degli inferi”, o meglio, secondo l’originale greco dell’ade, che è l’ellenizzazione dell’ebraico “porte della morte”, un espressione molto presente nella letteratura biblico giudaica. L’immagine delle “chiavi” è pure presente nel mondo biblico antecedente a Gesù (Cfr Is 22,22.), quindi ha una matrice squisitamente biblica. Per non parlare del “legare e sciogliere”, il detto di Gesù su cui è fondato il ministero Petrino. Dietro questa espressione c’è un originale aramaico che fa riferimento all’infliggere e annullare una scomunica dalla sinagoga, ma ha anche un valore più magisteriale in quanto può significare un “proibire e permettere”, indicando un comportamento secondo la legge interpretata con autorità (Cfr. Gianfranco Ravasi, Il primato petrino risale al Gesù storico?, in Vita Pastorale, giugno 2005, pag. 54).

Concludendo questa mia riflessione, torno nuovamente alla confessione messianica, da parte di Pietro, quando dice a Gesù: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
Che vuol dire questa frase di Pietro? Ha la stessa pregnanza della nostra fede di cristiani di oggi? E che significa, per noi che non abbiamo conosciuto Gesù come Lui, ma abbiamo avuto modo di confrontarci con la Sua Parola e le Sue Opere, giunte fino a noi in duemila anni di Storia cristiana?
Partiamo dalla consapevolezza che la solenne testimonianza di Pietro, così com’è descritta nel Vangelo di Matteo, risente, verosimilmente, dell’evento glorioso della Pasqua. Per cui dobbiamo presumere che sia più autentica, sotto il profilo dell’autenticità storica, la breve confessione di Pietro, “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29), riportata nel vangelo di Marco.
Come ho già accennato prima, non è certamente errato affermare che nella confessione di Pietro ci sia un’idea sbagliata del Messia. È la stessa idea condivisa da alcuni apostoli come Giovanni e Giacomo di Zebedeo, cioè l’attesa, specialmente da parte loro, di un Messia potente, trionfante. Un liberatore che riporti in auge l’era Davidica.
Non è questo il tipo di Messia, che Gesù di Nazareth ha davanti agli occhi, specialmente dopo aver sedimentato, nel suo cuore, le diverse reazioni da parte delle autorità religiose ebraiche e dello stesso popolo di Israele, di fronte al Suo originale annuncio di salvezza, confrontandole, peraltro, con la lettura della Storia Sacra.

Da Cesarea di Filippo scaturisce un divino messaggio per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi: come vedremo bene la prossima Domenica, la rivelazione di Gesù Messia di Israele assume chiaramente l’immagine biblica del Servo di Dio sofferente, profetizzata da Isaia (Cfr. Is 42,1ss.; Is 50,5ss.), offrendo, e questo è un aspetto profondamente parenetico, cioè esortativo, una risposta, anzi l’unica risposta, all’uomo di tutti i tempi che si interroga sul male, sul dolore, sulla morte. La risposta più grande, Gesù, la darà con la sua passione, morte e risurrezione. E sarà proprio nell’ambito della passione che Lui dichiarerà direttamente a Caifa di essere il Figlio di Dio.
Ma a Cesarea di Filippo, e questo non appare nel Vangelo di questa domenica ma in quello di Domenica prossima, Gesù intende offrire un’altra risposta all’uomo che si interroga sul male, sul dolore, sulla morte.
A Cesarea di Filippo, Gesù dice, implicitamente, che Dio è presente dove l’uomo soffre, dove l’uomo patisce il male, dove l’uomo si chiede il perché del male e della morte. È come se Gesù dicesse: “Eccomi, sto qui, o uomo. Sto qui con te, a patire, a morire sulla croce, a risorgere con Te, perché c’è un’altra vita, più grande, gioiosa e bella, che ti aspetta”.
La risposta di Dio all’uomo che soffre è appunto questa: una risposta di condivisione, di pace, di amore divino. Una risposta che non distrugge subito il male, il dolore, la morte, come vagheggiano i religiosi Esseni, come auspicava Giovanni Battista, e, forse, come vorrebbero i suoi amici. No, Gesù conferisce un senso prezioso a queste realtà estremamente dolorose ed angoscianti, lasciando l’uomo libero di agire, addirittura contro il progetto di Dio e contro la sua volontà, ma anche pienamente abbandonati e coinvolti, come assoluti protagonisti, nella Storia Divina della salvezza.
Ecco il Figlio di Dio. Colui che non trionfa con la forza, con la violenza e con la potenza della sua Parola. Ma vince dolcemente, partendo dal cuore dell’uomo. È lì, dove allignano tutti i sentimenti, che comincia la grande irradiazione del Suo Regno. Un Regno dove Lui, Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio altissimo, si mostra sempre “Con l’uomo e per l’uomo”.