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Il Vangelo di Domenica 23 settembre. A cura di Donato Calabrese

21/9/2018

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XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
(Mc 9,30-37)

Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà». Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro:  «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.
Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Il brano evangelico racchiuso nella liturgia della Parola di questa Domenica, si compone di due parti. Nella prima, Gesù preannuncia per la seconda volta la sua Passione; ma sembra proprio che l’attenzione dei suoi discepoli sia rivolta altrove, tanto è vero che essi sono coinvolti in una discussione che verte su colui che, in mezzo a loro, possa essere considerato “il più grande”.
In risposta a questo confronto dialettico, Gesù pronuncia una nuova profezia della sua passione, e invita i suoi discepoli rinunciare ad ogni desiderio di dominio, ribadendo che l’unica autentica autorità nel Popolo di Dio è e deve essere quella dell'ultimo posto, dell'umile servizio, di farsi piccoli come bambini, perché, come dirà in seguito: “a chi è come loro appartiene il regno di Dio”(Cfr. Mc 10,14).
Come potete comprendere, le Parole di Gesù sono intrise di una freschezza  straordinaria, ma anche di una scottante attualità relativa a quel senso di “preminenza” che è tuttora presente nella Società umana e nello stesso Popolo di Dio: un’idea che snatura ed intorpidisce la vita di fede.
Quello che i discepoli conoscono è un Gesù ancora misterioso che lentamente e gradualmente si va rivelando.  E nel corso di questo percorso in cui vuol farsi conoscere meglio, Gesù dice ancora una volta, ai suoi discepoli, che “Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”. 
Questa espressione di Gesù presente nel vangelo di Marco ha un indubbio carattere di antichità come evidenziato dalla presenza, tipicamente semitica del gioco di parole («figlio d’uomo», «uomini») che presuppone una formulazione originaria ebraica o aramaica, oltre che dal passivo divino “sarà consegnato”, e dalla costruzione della frase tipicamente semitica: “consegnato nelle mani di” (Cfr. James D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo,La memoria di Gesù, 3 L’acme della missione di Gesù, Ed. Paideia, 2007, 855s.).
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Diversamente dalla prima predizione (Cfr. Mc 8,31-32) della passione, morte e risurrezione, qui non è presente il pensiero della necessità del dolore. Inoltre, l’espressione chiaramente semitica  “Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno”, “sottolinea, in maniera caratteristica – come afferma Michele Mazzeo - il mistero di colui che sarà consegnato. È un’allusione al fatto che Dio stesso agisce in questo avvenimento. La forma passiva indica l’azione di Dio (passivum divinum: Il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani degli uomini perché Dio vuole così) e il compiersi del disegno di Dio attraverso reali vicende umane” (Michele Mazzeo, Pietro Roccia della Chiesa,  Paoline Editoriale Libri, 2004,144).
Ma i discepoli non comprendono le parole di Gesù. I loro pensieri sono altrove e hanno timore di chiedergli spiegazioni. Loro che si aspettano ben altro da Lui. Lo hanno visto risplendente di gloria sul Tabor.  Hanno timore di interpellarlo, forse per non essere rimproverati. È il timore degli adulti, è il timore di chi vuole organizzare ed impostare la propria vita secondo i suoi progetti, i suoi calcoli, le sue idee. Non è ancora, come sarà dopo la Pasqua, la fiducia incrollabile, come quella dei bambini. Il credere che nonostante la croce e la morte, Gesù riabbia la vita.
Quando giungono a Cafarnao, i discepoli non vogliono dire a Gesù di cosa hanno parlato lungo la via. Né lui  ha dato l'impressione di aver ascoltato i loro discorsi, anche perché, molto probabilmente, quando la piccola comunità è in cammino, Gesù va avanti a tutti, mentre i discepoli lo seguono a gruppetti. 
Mentre Lui ha camminato ripensando all’epilogo della sua missione, i discepoli hanno discusso tra di loro, chiedendosi chi di essi fosse il più importante, il più grande nel Regno, cercando di imporre gli uni agli altri la priorità del proprio ruolo al fianco di Gesù. E certamente, dopo aver visto la gloria del Tabor, tra di loro questi discorsi si sono fatti sempre più presenti, senza accorgersi di essere molto lontani dal pensiero di Gesù, dalla sua profezia, oltre che dal suo insegnamento.

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“Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”, dice Gesù. I discepoli non rispondono perché sanno che Gesù non approverebbe assolutamente i loro meschini e gretti ragionamenti sul più grande di loro. Allora Lui, che legge nei loro cuori, chiama i Dodici e dice loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti”.  E, preso un bambino, lo pone in mezzo a loro, ed abbracciandolo dice loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Il termine greco 
paidion significa fanciullo, per cui identificandosi con bambino, Gesù intende anche affermare che accogliere un bambino nel suo nome equivale ad accogliere lui, e chi avrà accolto un bambino nel suo nome sarà il più grande nel regno dei cieli.  
L’essere grandi, diciamo adulti, importanti per gli altri, non dipende, certamente, dall’idea di essere preminenti rispetto agli altri, quanto da quella mozione dello Spirito che, dal di dentro, ci sollecita a cercare di vivere la via dell’umiltà, della piccolezza e della semplicità, facendoci piccoli, come i bambini, sul modello dello stesso Gesù. Chi vuol essere il primo deve farsi ultimo e servo di tutti. Come si è fatto Lui, Servo di tutti, mite come un agnello, piccolo, umile e semplice come un bambino. Per rendere più plastico l'esempio, Gesù prende la persona più indifesa, semplice, innocente: un bambino. Lo abbraccia  e lo propone come modello di questa umiltà senza la quale non c'è né Cristianesimo, né sequela di Cristo, né ascolto vero della Sua Parola.
Accogliere il bambino significa accogliere  Gesù stesso. Accogliere Gesù vuol dire farsi Bambini e rinunciare alla logica delle priorità, dell'importanza, del potere, della vanità, dell'autoglorificazione, dell'esibizione, molto diffusa oggi, anche nel Popolo di Dio. 
Ai discepoli che dall’amicizia di Gesù si aspettano un grande prestigio ed un enorme potere personale, Lui propone la via della croce e dell'umiltà, virtù essenziale di ogni cristiano.  Se non siamo umili e semplici, non possiamo entrare in comunione vitale con Gesù Cristo, Figlio di Dio. 

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Possiamo essere anche persone che occupano un posto di primo piano nella Società, nella politica, o nella stessa Comunità dei credenti, ma se non c'è umiltà in noi, non siamo destinatari dell’amore di predilezione da parte di Cristo. Solo l'umiltà, unita alla carità ed alla semplicità di cuore ci apre il cuore di Cristo, il cuore di Dio. Ce lo insegna una delle grandi anime mistiche della Cristianità: Padre Pio da Pietrelcina. Perché Dio ha compiuto miracoli e prodigi senza numero per mezzo di Padre Pio? Certamente perché fin da giovanissimo si è offerto come vittima d’amore e di dolore, accanto a Cristo, nel supremo Negozio della Redenzione umana, effondendo fino all’ultima goccia del suo sangue, come dimostra la scomparsa delle stigmate dal suo corpo, nelle ore precedenti la morte. Ma Dio ha compiuto innumerevoli meraviglie in Padre Pio soprattutto per la sua umiltà, il suo essere quasi come un bambino, la sua innocenza. E in effetti per cogliere l’autentico tratto distintivo della sua anima occorre proprio pensare che in Padre Pio il male non si è sprigionato ed evoluto come in ogni altro uomo, perché i suoi sentimenti lo hanno conservato sempre come un bambino, molto simile all’uomo originale, quello appena creato dalle mani di Dio.
A questo punto, termino la mia riflessione con un‘affermazione rivoluzionaria: abbiamo sempre immaginato Dio come un vegliardo, come un essere anziano con la barba, più o meno come è stato rappresentato nell’arte figurativa e come lo ha affrescato Michelangelo nella cappella Sistina. Nulla di più sbagliato:  Dio è eternamente giovane. È un Bambino. È Amore infinito, purezza infinita, gioia infinita. Pace infinita. E di fronte a questo nostro Creatore non possiamo non avere un duplice sentimento: profondo e autentico dolore per i nostri peccati; e amore, amore, amore di fronte all’Amore assoluto ed eterno che “ci ha amati per primo” (Cfr. 1Gv 4,19).
In questa consapevolezza si comprendono ancora di più le parole di Gesù: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.

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