XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO |

Il gruppo sta per raggiungere la città di Gerico, situata al centro dell’omonima oasi, e dista circa una trentina di chilometri da Gerusalemme, che è situata su in alto, ad ovest, oltre il deserto di Giuda.
Gesù sa che bisogna annunciare anche a Gerusalemme, “la città del gran Re”, la venuta del Regno attraverso la sua persona. E già prima di entrare in Gerico il suo pensiero è rivolto alla Città Santa, consapevole che la predicazione è giunta al momento culminante, in quanto si compie il suo destino. È questo il momento in cui Egli viene rivelato al mondo come il vero Figlio di Dio e viene instaurato visibilmente quel Regno che ha annunciato e predicato.
Dal brano evangelico si rileva facilmente che gli apostoli manifestano una certa convinzione che si portano dentro, e cioè che a Gerusalemme ci sarà il trionfo della strategia politica di Gesù. È evidente che non hanno capito un granché di quanto Gesù ha detto poco prima e che noi rileggiamo, anche se non fa parte del Vangelo di questa Domenica: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà”.

Ai figli di Zebedeo che gli hanno chiesto di sedere nella sua gloria uno alla sua destra e l’altro a sinistra, Gesù risponde: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”.
Il calice da bere di cui parla Gesù è un calice di sofferenza. Vi ricordate cosa dirà nel Getsemani, nella sua preghiera al Padre? “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”.
Quindi, a Giacomo e Giovanni che chiedono potere, Gesù offre la croce.
Dicendo “Lo possiamo»”, essi non si rendono ancora conto di ciò che aspetta Gesù e la sua comunità.
Nel dire che il loro destino sarà simile al suo, Gesù chiude la questione dicendo che non tocca a lui concedere ciò che hanno chiesto: questo spetta al Padre.
Vedete, cari amici, qui abbiamo un altro chiaro segno della Storicità dei Vangeli. Chi ha scritto questo vangelo è Marco, l'interprete di Pietro, discepolo fedele del principe degli apostoli. E Marco come cristiano e, probabilmente come discepolo di Gesù, invece di tenere nascosti i puerili calcoli umani di coloro che saranno le colonne nella Chiesa dopo l’Ascensione di Gesù, li riporta con tutta la sua sincerità e immediatezza. E non è questa, certamente, la prima volta in cui le affermazioni ed i gesti amplificati dai Vangeli, mettono a volte in cattiva luce gli apostoli di Gesù, .
Ma proseguiamo la nostra riflessione. Gli altri apostoli vengono a conoscenza della richiesta che Giacomo e Giovanni hanno avanzato a Gesù. E allora si accende la disputa tra gli altri dieci ed i figli di Zebedeo.

Con queste ultime parole Gesù si richiama alla figura del “Servo di Jahvè”, la cui comprensione può introdurci nel cuore del mistero di Cristo.
Il termine aramaico, utilizzato da Gesù, è molto probabilmente talya’, e vuol dire sia «servo» sia «agnello». I due significati sono praticamente omogenei. Gesù dice di essere venuto nel mondo, non per essere servito, ma per dare la propria vita, come agnello e come servo sofferente di Dio, in riscatto per i “molti”, cioè le moltitudini delle genti, quindi adempiendo in pieno la volontà di colui che l’ha mandato, ricondurre, così, tutta l’umanità al Padre.

E passo alla conclusione, riportando uno stralcio dell’editoriale della Civiltà Cattolica del 5 aprile 1980: “Essendo sotto il segno dell’amore, tutto il cristianesimo è sotto il segno dell’umiltà di Dio. Questo significa che, nella visione cristiana, Dio non si impone all’uomo con la potenza, tanto meno con la forza e la violenza, ma si presenta a lui nell’amore e nell’umiltà e fa appello alla sua libertà. Non forza la volontà dell’uomo con il timore dei castighi, ma chiede di essere accettato ed amato liberamente e gioiosamente. Mostra, certo, all’uomo qual è la conseguenza del rifiuto dell’amore di Dio - la morte eterna -, ma non vuole che egli lo ami e gli obbedisca soltato per paura. Solo l’amore è degno di Dio; ora, scrive san Giovanni, «nell’amore non c’è timore; al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore». Così, l’unica forza che Dio fa valere nei confronti dell’uomo è l’amore e l’unica risposta che egli attende è l’amore. Ciò pone Dio in una situazione di «debolezza»: al suo amore l’uomo può sempre opporre il rifiuto e dinanzi al rifiuto dell’uomo Dio non può far nulla”.

Padre Pio aspirava ad essere come lui: crocifisso nella carne, nell’anima e nei sentimenti. Il suo pensiero era sempre fisso a quegli istanti sublimi della giornata sacerdotale che segnano e accompagnano la presenza del corpo e sangue di Gesù, oblato sulla croce e risorto, e quindi nascosto nel pane e nel frutto di quella vite che indica il suo sangue interamente versato per l’uomo.
Non la via della gloria, ma quella della croce, Gesù ha indicato agli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Questa memoria viva e vitale di lui, che si realizza ogni giorno nella Cena eucaristica, ci conduce, se lo vogliamo, a vivere al presente, del suo Dono divino, e fare, del suo amore crocifisso e Risorto, il centro dei nostri sentimenti e della nostra vita, e, quindi, il nostro respirare, il mangiare di questo Pane del Regno, che ci trasforma nello Spirito di Cristo, per introdurci, come Figli, nella Famiglia Trinitaria. Amen.