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Il Vangelo di Domenica 17 aprile. A cura di Donato Calabrese

15/4/2016

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IV DOMENICA DI PASQUA
(Gv 10,27-30)

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.  Io e il Padre siamo una cosa sola.
Il Vangelo di questa quarta domenica di Pasqua è molto breve, ma ricco di contenuti, in quanto accoglie delle espressioni che ci riportano direttamente a Gesù ed alla sua misteriosa Persona, la cui elevatezza è caratteristica peculiare di questo vangelo di Giovanni.
Gesù stimola continuamente la nostra riflessione, in quanto ci pone in continuo sentimento di attesa, e di sete della verità; di quella verità Divina che ci rende tutti liberi; di quella libertà la cui dimensione è frutto del nostro vivere la sua parola di Vita: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»(Gv 8,31-32).
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E se le poche parole che abbiamo ora ascoltato non sono, forse, ipsissima Verba, cioè Parole autentiche, reali, scaturite dalla bocca del Maestro Divino, certamente esse riflettono quello che è il Suo Pensiero ed il Suo Insegnamento.  Ce lo induce a credere innanzitutto la Persona che ha scritto questo Vangelo: Giovanni, amico di Gesù e fedele, più di tutti gli altri apostoli, fino alla morte, se è vero che Lo ha seguito fin sotto la Croce e, da lui, ha ricevuto in custodia la sua santissima Madre Maria. Ce lo fa pensare anche il fatto che Giovanni appartenga a quella schiera di discepoli stretti di Gesù, gli apostoli, che hanno custodito gelosamente le Sue Parole e le Sue Gesta, cercando di trasmetterle fedelmente alle nascenti comunità cristiane.
Ma soprattutto Giovanni, che ripetiamo è l’autore del testo che stiamo per ascoltare, è Colui che vide e credette.  Un testimone oculare degli avvenimenti legati a Gesù  Cristo, ed in modo particolare alla sua passione, morte e risurrezione, perché nessun apostolo, più di lui, è stato presente a questi momenti cruenti, dolorosi e gloriosi del passaggio di Gesù dalla morte alla vita. Lo dimostrano, tra l’altro, anche certi particolari narrativi che solo chi è  stato presente direttamente alle ore delle passione, poteva conoscere. 
Ma qui il discorso potrebbe continuare ed il contesto non ce lo permette. Ho voluto solo sottolineare alcuni punti che, a mio parere, giustificano l’autenticità di questo testo evangelico:   “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.  Io e il Padre siamo una cosa sola”.

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Al tempo di Gesù la pastorizia ha un ruolo considerevole nell'attività economica della società ebraica, nella cultura e nella vita di tutto il popolo di Israele. Non solo, ma anche nel linguaggio figurato, quello che si sviluppa attraverso il valore ed il significato dei simboli, la figura del Pastore indica in maniera popolare quella del Re e degli altri capi del popolo. Ciò avviene particolarmente per coloro che sono identificati come salvatori e liberatori in senso religioso. 
Quando sfogliamo le pagine della Bibbia, e specialmente di quei libri che fanno parte dell’Antico Testamento, ci capita spesso di trovare dei paragoni, delle similitudini tra queste immagini: il pastore ed il gregge, da una parte, i capi di Israele ed il popolo dall’altra. I capi di Israele sono spesso chiamati pastori, ed ancora più spesso cattivi pastori. Il popolo è definito come il gregge, molte volte abbandonato a sé stesso. È in queste circostanze che Dio fa sentire la propria voce in difesa delle pecore, e cioè della gente semplice, comune e povera di Israele. Dio stesso assume la veste di Pastore del suo Popolo. È Lui, attraverso i profeti, a prendere le difese del povero, dell’umile, dell’emarginato, ispirando pagine bellissime che manifestano la sua tenerezza paterna e quell’amore che Gesù ci farà conoscere in pienezza. 
È particolarmente nei libri di Geremia e soprattutto Ezechiele, che Dio fa sentire la sua voce contro i cattivi pastori di Israele, cioè i capi e coloro che dovrebbero guidare questo gregge figurato che è  il Popolo di Dio, ma che invece “governano sé stessi e basta”.
Di fronte all'incoerenza ed all'infedeltà di tali pastori, Dio che è il Vero Pastore di Israele, promette l'invio di un Pastore che amerà davvero il suo popolo e lo condurrà alla salvezza. È Gesù di Nazaret, il Pastore preannunciato dai profeti, presentato, Lui stesso, come il Buon Pastore (Cfr. Gv 10,11) ed identificato come  il Pastore di Israele. Lui è il Buon Pastore la cui voce le pecore ascoltano  e seguono.  Gesù è il Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore e si commuove  e manifesta la sua tenerezza verso il suo popolo quando vede, come leggiamo nel vangelo di Marco (Cfr. Mc 6,34), che sembra come un gregge di “pecore senza pastore”.

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Gesù affronta il tema del Buon Pastore durante la Festa della Dedicazione  del tempio, allorché, in essa, viene letto il  testo Biblico del profeta Ezechiele che denuncia i cattivi pastori di Israele, le cattive guide, coloro che pensano più a sé stessi che al popolo(Cfr. Ez 34).   
Un'immagine  sempre attuale, e che può adattarsi benissimo a tutti coloro che hanno responsabilità verso gli altri. Anche a quegli uomini politici che cercano il loro interesse personale invece di curare il Bene Comune.  Proprio come sta succedendo ora nella politica italiana. Pensano, quindi, più a pascere sé stessi che il gregge che sono chiamati a rappresentare. Ogni tempo ha i suoi cattivi Pastori. C'è una grossa frattura che separa la classe politica dai problemi reali del Paese, e chi ne fa le spese è proprio il settore che avrebbe bisogno di maggiore cura e solidarietà da parte di uno Stato efficiente e di un Governo vicino a coloro che sono più deboli, fragili ed emarginati, cioè gli anziani, i malati, i disoccupati, coloro che in un modo o in un altro sono soli nelle grandi sfide della vita, mentre molti politici badano solo a riempirsi il portafoglio. Questa è la realtà dell'Italia di oggi, che sembra ripetere quella di Israele guidata dai cattivi pastori o quella soggiogata dal potere romano. Ma Dio non abbandona gli uomini, e specialmente coloro che lo invocano, offrendo, per bocca di Suo Figlio, l'Eletto, l'immagine del Buon Pastore che ridona la forza alle pecore deboli, cura quelle infermi, fascia le pecore ferite, riporta all'ovile quelle disperse (Cfr Ez 34,2-4.). Egli sarà totalmente coerente con queste affermazioni che attualizza, dando la sua stessa vita per il suo gregge. 
Storicamente parlando, quella di Gesù è stata la più esemplare, sublime, mansueta, mite, misericordiosa di tutte le morti. Solo un uomo particolare; solo un uomo con l’impronta di Dio, irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3) poteva fare una cosa del genere: morire, cioè, come un agnello condotto al macello. Ma in Gesù l’immagine agnello, pecora, si identifica con quella del Pastore delle pecore: del Buon Pastore.  Le pecore conoscono il loro pastore e lo seguono. Anche se passano migliaia di anni, le pecore riconoscono la sua voce. Egli dà loro la vita eterna, consegnandosi una volta per tutte alla morte più spietata. E le pecore non andranno perdute, perché – e sono le sue parole – “nessuno le rapirà dalla mia mano.  Il Padre che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio”. Infine, l’affermazione della sua Divinità: “Io e il Padre siamo una cosa sola”.

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Voglio portare la vostra attenzione su quest’ultimo testo. Improvvisamente nel discorso di Gesù entra il pensiero del Padre Celeste. Gesù dice delle sue pecore, quindi di tutti noi: “Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.  Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Innanzitutto Gesù afferma di aver ricevuto dal Padre Celeste la Missione di guidare e condurre il gregge di Dio, il popolo di Israele, ma anche noi che siamo il Nuovo Popolo di Dio, La Chiesa, verso la Terra Promessa, cioè la Gerusalemme Celeste che ci aspetta al di là della storia.
Nella frase evangelica che abbiamo letto prima, c'è anche un contrasto che a me sembra apparente: all'inizio Gesù afferma che il Padre è il più grande di tutti; quindi, anche di Lui. Subito dopo aggiunge: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Una frase sconvolgente, provocatoria, che per gli Israeliti suona quasi come una bestemmia. Infatti dopo averla sentita i Giudei lo vogliono quasi lapidare, perché, gli dicono: “Tu che sei uomo ti fai Dio”.
Orbene, secondo alcuni testimoni come il Codice Vaticano(B). la Volgata ed altri, nella prima parte della frase il testo sarebbe così: “Il Padre mio, ciò che mi ha dato, è più grande di tutto”. Invece, secondo testimoni altrettanto importanti come il Codice Sinaitico ed altri, Gesù dice: “Il Padre mio, quanto a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti”. Quindi da questi testi prestigiosi non risulta alcuna inferiorità di Gesù verso il Padre Celeste. Anzi il pensiero successivo suggella ancora una volta l'uguaglianza di Gesù col Padre, tanto è vero che i Giudei lo vogliono uccidere perché si è fatto uguale a Dio. Alcune frasi successive, nello stesso capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni, danno la misura della consapevolezza di Gesù di essere uguale al Padre: “IL Padre è in me ed io sono nel Padre”. 
Questa coscienza divina di Gesù lo fa essere ancora di più in sintonia con il vaticinio di Geremia ed Ezechiele, allorché profetizzano che Dio stesso si prenderà cura delle sue pecore: “Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11ss; Ger 23,3..).

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Torniamo, allora, a considerare la figura del Buon Pastore, che, come abbiamo visto, è Dio stesso che si prende cura di noi. E lo facciamo portando la vostra attenzione sui tre verbi che sono presenti in questa breve pericope evangelica: ascoltare, conoscere, seguire.  Essi designano il vero discepolo del Maestro Divino. Ascoltare la sua Parola; conoscere o riconoscere la sua voce, come quella del Pastore buono delle pecore. Infine seguire. La via più difficile ed ardua, ma con lui alla guida la strada diviene più sicura, nonostante i venti impetuosi, le tempeste, gli assalti del male. Nonostante tutto. L’importante è riconoscere il Pastore Buono delle pecore.
Il bellissimo salmo 23 (22) esprime plasticamente questo atteggiamento di fiducia e di abbandono verso questo Pastore Divino: “Salmo. Di Davide. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza…” (Sal 23(22) 1,4.).
È il grido di fiducia e di abbandono quieto dell’agnello alla guida del Pastore Buono. È il grido dell’anima che non teme il pericolo, la nudità, la spada, il male.
È l’anima che si abbandona tra le braccia del Buon Pastore, ricordando che in Lui si sono adempiute le profezie di Ezechiele: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,15-16).

È ciò che ha fatto e ciò che continua a fare Lui: Gesù di Nazareth.

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