XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO |
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà».
È nei dintorni di questa città, il cui nome originario era Panaeas, o Panias, trasformata, intorno al 4 d. C. in Cesarea di Filippo, che i Vangeli situano la cornice geografica di un episodio cruciale della vita di Gesù, attestato da tutti e tre i vangeli sinottici, e la cui storicità è unanimemente riconosciuta dagli studiosi.
Il testo si compone di due parti ben distinte: nella prima Pietro riconosce a chiare lettere la Messianicità di Gesù. Nella seconda, Gesù indica quale tipo di Missione è venuto a compiere.
Il racconto evangelico è ambientato in un momento cruciale della vita della comunità. Ed è soprattutto in questo testo di Marco che io credo di percepire il passaggio cruciale tra le fasi precedenti della vicenda di Gesù e quelle successive, che lo porteranno alla morte, anche se l’importanza del momento è percettibile pure negli altri due vangeli sinottici: Matteo e Luca.
L'entusiasmo iniziale delle folle di Galilea è andato lentamente stemperandosi in vari filoni di reazioni di fronte all’insegnamento di Gesù. Quelle stesse folle che lo avevano accolto, ora lo hanno gradualmente abbandonato, anche se c’è un “Resto” che continua a fare affidamento su di Lui.
E allora Gesù volge il suo sguardo sullo sparuto gruppo dei discepoli e comincia ad intravedere, davanti a lui, un destino diverso: la sua passione e morte. Siamo quindi in una fase nuova della missione. Una fase nella quale Gesù interpella i suoi amici, domandando loro: “Chi dice la gente che io sia?”. Alcuni dicono che Egli è Giovanni Battista, altri vedono in lui Elia o uno dei profeti.
Poi, Gesù si rivolge direttamente ai Dodici, chiedendo loro: “E voi chi dite che io sia?”.
“Tu sei il Cristo”, risponde Pietro. Come per dire, parafrasando il compianto cardinale Martini: “Gli altri sono profeti parziali, mediatori per tempi contingenti della storia; tu sei il mediatore assoluto, tu sei la chiave della storia, sei colui che riassume in sé tutta la storia precedente e spiega quella che verrà” (Carlo Maria Martini, Le età della vita, Una guida dall’alba al tramonto dell’avventura umana, Mondadori Editore, Milano, 2010, 107).

Un divieto che può essere spiegato dal fatto che l’appellativo di Messia, in greco Cristo, appare troppo ambiguo, perché legato alla liberazione politica della terra di Israele. Gesù, infatti, precisa subito che “Il Figlio dell’uomo” deve molto soffrire, ed essere condannato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso, e dopo tre giorni risuscitare. La dignità messianica di Gesù sarà, infatti, riconosciuta e confessata solo dopo le apparizioni (Cfr. At 2,6), fino al punto che il termine Messia diverrà il nome proprio di Gesù. Cristo, infatti, traduce l’ebraico Mashiah (Messia, Unto), e diventa il nome proprio di Gesù, perché Egli compirà perfettamente la missione divina affidatagli da Dio, quella di instaurare definitivamente il suo Regno (Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 436).
Mentre Gesù parla di queste cose, proprio Pietro, il discepolo che ha espresso così apertamente la sua dignità Messianica, lo chiama in disparte, quasi rimproverandolo. è evidente che Pietro intenda allontanarlo da quella via dolorosa che lui già intravede davanti a sé. Via dolorosa e via salvifica: è mai possibile?
Solo in Gesù, Figlio di Dio Benedetto può essere possibile. Solo Lui può cambiare il male in bene ed il dolore in grazia.
Tuttavia, Pietro sembra non accettare ciò che Gesù ha detto, e glielo dice in disparte.
È repentina, improvvisa, tremenda la risposta di Gesù: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Un’esclamazione che la dice lunga sulla storicità del brano, specialmente se consideriamo che il redattore del Vangelo è quel Marco evangelista che ha operato in stretto contatto con Simon Pietro. Lo stesso apostolo lo chiama affettuosamente “Marco, mio figlio” (1Pt 5,3). Infine, secondo Papia, Marco ha scritto il suo vangelo dietro ispirazione di Pietro. Se l'episodio non fosse storico, Marco non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad eliminarlo dalla narrazione, proprio perché il fatto pone Pietro in una luce non proprio positiva di fronte alla comunità cristiana primitiva.
Ma Marco riporta quest’espressione forte perché l’ha sentita da Pietro, oppure perché Pietro stesso l’ha autorizzato a farlo, per enfatizzare maggiormente quella Via della Croce che si intreccia mirabilmente con la Via della salvezza, in Gesù, con Gesù e per Gesù.
E allora perché Gesù ha usato un'espressione così forte nei riguardi di Pietro, chiamandolo addirittura “Satana”?

La realtà è un’altra, ed è ancora più grande e mirabile rispetto alle aspettative dell’ex pescatore Pietro. Gesù intende essere un Messia diverso dalle aspettative delle folle e dei suoi stessi discepoli. È questo il Gesù storico, il Gesù che prima dell'esperienza della Pasqua dimostra chiaramente di aver scelto la via della debolezza e della fragilità; quella che passa per la croce e la morte.
C'è un passaggio decisivo, qui, A Cesarea di Filippo: “Si passa dalla rivelazione di Gesù Messia a quella del Figlio dell'uomo sofferente” (Bruno Maggioni, Muovo Testamento, in Introduzione alla Storia della Salvezza, ELLE DI CI, Torino-Leumann, 205).
Di fronte a questa prospettiva dolorosa, diametralmente opposta a quella vagheggiata dai suoi amici, nasce una nuova incomprensione. E se prima erano le folle a fraintendere la missione di Gesù, interpretandola come una missione di potenza e di gloria, ora sono gli stessi discepoli a volerla così, rifiutando inconsapevolmente la prospettiva profetica del Servo di Dio sofferente, abbracciata volontariamente da Gesù di Nazareth.
Gesù è drammaticamente solo, incompreso da tutti. Siamo in quella che è la fase cruciale della sua vita, quella “in cui Egli vede che il popolo non lo segue e si rende conto che la sua missione lo porterà a una morte violenta. Questa prospettiva non muta né i suoi gesti, né la sua predicazione. Accetta, quindi, questo suo destino come parte costitutiva della sua missione messianica (Pius-Ramon Tragan, La Preistoria dei Vangeli, tradizione cristiana primitiva, Ed. Servitium, 1999,109).
È qui, a Cesarea di Filippi, che Gesù passa decisamente il guado attraverso il fiume della storia umana. Da una parte i potenti della terra, dall’altra gli anawim, i poveri dei poveri, i malati, tutti coloro che soffrono, i miseri, i deboli.
Da una parte la storia tracciata col sangue e con la sopraffazione dei forti sui deboli. Dall’altra, la debolezza e la fragilità umana fatalisticamente costretta alla sconfitta. Da una parte coloro che la Storia l’hanno scritta e tuttora la scrivono con la Esse maiuscola. Dall’altra coloro che la storia la subiscono, sulla propria pelle.
E cosa è avvenuto qui, sulla terra, in questi milioni di anni? Cosa mai può aver cambiato l’umanità? Cosa possono i deboli e gli umili di fronte alla forza e alla sopraffazione della potenza, della ricchezza, dei soprusi e della violenza?

Gesù ha passato il guado, a Cesarea di Filippo. Ha pensato agli eventi accaduti. Alle folle di Galilea che dopo gli iniziali entusiasmi non hanno accettato il suo messaggio di salvezza. Ha interpretato le difficoltà della missione alla luce delle sofferenze degli antichi profeti di Israele. Ha guardato profondamente nel suo cuore. Ha letto intimamente la volontà del Padre. Ed ha deciso. Dalla sua riva, insieme con i suoi amici, ci sono, forse, le prospettive di chi è destinato a grandi cose. Sulla sua riva ci sono coloro che, la storia, l’hanno scritta con gesti di potenza, carichi di onori, ricchezze ed anche prepotenze, soprusi ed oppressioni. Molti di loro hanno usato la logica dell’ingiustizia e della forza.
Con i suoi occhi di Maestro, di Sapiente, di Profeta di Israele, di Messia, di Colui che aveva proclamati Beati coloro che sono poveri, coloro che soffrono, coloro che sono miti ed umili di cuore, e coloro che sono perseguitati a causa della giustizia; ricordando ancora i loro sguardi attoniti e pieni di speranza rivolti a Lui, Gesù ha guardato all’altra riva, là dove sono ammassate le miserie umane. Egli sa che Dio è “il Dio degli umili, il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati” (Cfr. Gdt 9,11). Gesù ha voluto farsi debole, sfiduciato, povero, fragile, condividendo in toto il destino dei derelitti. E ha detto, ai suoi amici: “Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno”. Come se volesse dire: “Io passo il guado e vado all’altra riva, dove mi aspettano i poveri dei poveri, i sofferenti, i miseri, i derelitti, coloro che non lasceranno alcuna traccia nel cammino della storia umana. Vado a stare con loro, per condividere la loro vita ed assumere tutte le loro pene. Solo così potrò Dare a essi l’amore del Padre”.
Ed è passato simbolicamente all’altra riva, Gesù di Nazareth.
Soprattutto qui, a Cesarea di Filippi, Gesù ha passato il guado. Come avrebbe potuto cambiare il mondo senza condividere fino in fondo la sofferenza degli uomini? Come avrebbe potuto parlare agli umili, ai poveri, ai derelitti, dall’alto della sua potestà regale? Come avrebbe potuto rinnovare dal di dentro la natura umana senza operare il portento della sua morte e risurrezione dal quale sarebbe scaturito l’esplosivo annuncio Pasquale?

Una scelta profondamente umana, fatta dall’uomo Gesù e per l’uomo di tutti i tempi. Ma una scelta che non poteva non essere di chiara origine divina. Solo un Dio, solo il Dio amorevole di Israele, solo il Dio della rivelazione biblica e cristiana poteva fare quello che Gesù ha deciso di fare.
Ma di fronte alle parole di Gesù non c’è solo il Pietro di Cesarea di Filippo. Ci sarà anche un altro Pietro: l’apostolo che vorrà morire crocifisso a testa in giù, come il suo inimitabile Maestro di Galilea. E con Pietro c’è tutto il popolo di Dio.
Ma ci sono soprattutto i mistici: le anime che si sono riconosciute in Gesù e nel suo sublime messaggio, lasciandosi profondamente toccare dalle Sue Parole di Vita: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”.
La croce romana non è certo rara nella Palestina di Gesù e la parola del «prendere su di sé la croce» trova la sua spiegazione nel costume secondo il quale il condannato, uscito dalla sala del tribunale, deve prendere sulle spalle il suo patibulum, cioè il palo trasversale della croce, e incamminarsi verso il luogo dell'esecuzione, tra le urla della folla ostile, ma anche la compassione delle anime sensibili.
Dicendo “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”, Gesù non intende, certamente, invitare tutti a soffrire il suo stesso martirio, quanto, invece, invitare ad intraprendere una via difficile, paragonabile all'estremo cammino di un condannato a morte. La via in salita di chi vuole seguirlo fino in fondo, anche a costo di essere schernito e disprezzato dalla gente, a causa della sua coerenza col vangelo.

Si Signore: hai voluto rinnegare te stesso e prendere la tua croce per salvarmi. Non posso non fare altrettanto, prendendo volutamente quella croce che mi accompagna in questo peregrinare per le vie del mondo. Abbracciare la mia croce, che è anche la Tua. Tenérmela stretta a me! Perché è su questo legno che Tu hai passato il guado decisivo sul fiume della storia umana. È su questo legno che sei passato dall’altra riva. Alla mia riva. Dove tu, Signore, sei venuto a condividere le mie debolezze, il mio patire, i miei profondi interrogativi esistenziali.
Come faccio a non rispondere, con il mio amore, al tuo Amore misericordioso!