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Il Vangelo di Domenica 12 agosto. A cura di Donato Calabrese

11/8/2018

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XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
(Giovanni 6,41-51)

Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano:  «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?».  
Gesù rispose: «Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Come quello delle ultime due domeniche, il testo evangelico di questa domenica appartiene al capitolo 6 del quarto vangelo, incentrato sul Pane della Vita che è disceso dal cielo.
Sia nel miracolo dei pani moltiplicati che nell’insegnamento successivo, si può scorgere un duplice livello di ascolto e interpretazione dell’insegnamento di Gesù. Il primo è rappresentato dalla folla di Galilea: il Discorso sul Pane di Vita interpella la sua fede in riguardo all’accoglienza del Nazareno come vero pane del cielo. Il secondo livello inquadra la folla dei credenti in Cristo: i discepoli che hanno accolto Lui e la sua Missione stabilendo un contatto più alto ed immanente con Lui. Alla luce di questa seconda prospettiva non si può non riconoscere un significato eucaristico alle parole pronunciate dal Rabbi di Galilea.
È chiaro che quando Giovanni pone per iscritto il suo vangelo, cioè verso la fine del primo secolo, le prime comunità cristiane celebrano già la Cena del Signore, per cui la lettura eucaristica del presente testo mostra già un riverbero della Cena del Signore celebrata in ogni comunità.
Giovanni ripensa ed elabora le parole e gli eventi operati da Gesù divulgati dai vangeli sinottici (Cioè Marco, Matteo e Luca, N.d.R..) che lui già conosce. Quindi ciò che tali vangeli hanno annunciato in germe, qualche decennio prima, Giovanni esplora in profondità, avendo più tempo per penetrare a fondo il mistero connesso con le parole e gli Eventi compiuti da Gesù, e, memore dell’esperienza di vita comune col Maestro e con gli altri Undici, sviluppa con la sua impronta personale, molti temi che sono presenti anche negli altri testi sinottici.
Leggendo, allora, il testo evangelico di questa domenica, non possiamo non porre l’accento sui due piani di ascolto delle parole di Gesù, prospettati prima. Nel primo, Gesù invita i suoi interlocutori, cioè la folla di Galilea, ad accogliere la Sua Persona e Missione come Pane del cielo. Nel secondo possiamo leggere chiaramente il riferimento eucaristico, che, come notato in precedenza, “sembra abbia guidato anche la descrizione dei gesti di Gesù nel distribuire il pane. Gesù, Figlio dell’uomo, darà il pane che rimane per la vita eterna. È un pane, di cui sia la manna antica, sia il recente pane moltiplicato sono un simbolo storico” (Giuseppe Segalla, Il Pane di vita, in Storia di Gesù, Ed. Rizzoli, 1983, vol. 2, p. 764).
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L’episodio evangelico, localizzato a Cafarnao, cita dei Giudei, anche se probabilmente si tratta di persone della Galilea legate al partito dei Farisei e del Sinedrio di Gerusalemme. Pur essendo Galilei, con qualche probabile presenza realmente giudaica, l’evangelista li chiama tutti Giudei, come spesso avviene in questo quarto evangelo che egli scrive in un momento storico contrassegnato da un aspra controversia scoppiata tra i giudei che credono nella messianicità di Gesù e la maggioranza del mondo giudaico, che rifiuta decisamente questa fede in Lui. Giovanni scrive la storia di Gesù e quindi le sue dispute con i giudei ed i farisei, in modo che la Comunità che legge e ascolta il suo vangelo, riconosca le proprie controversie con la posizione giudaica maggioritaria  nel proprio ambiente, scoprendosi, così, nella presentazione  del discepolato di Gesù (Cfr. Klaus Wengst, Il Vangelo di Giovanni, Ed. Queriniana, 2005,15ss.). 
Il verbo mormorarono, in greco Egogguzon, è utilizzato da Giovanni per indicare l’opposizione a Gesù da parte dei giudei, ed è presente, almeno in questa forma, solo due volte nell’antico testamento. Una prima volta nel salmo 77, dove è scritto “Mormorarono contro Dio dicendo: «Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (Sal 77,19). E nel salmo 105: “Mormorarono nelle loro tende, non ascoltarono la voce del Signore” (Sal 105,25).  Notate l’analogia di questo versetto, tratto dal libro dei Numeri, con il versetto del salmo 77: “Tutti gli Israeliti mormoravano contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse loro:  «Oh! fossimo morti nel paese d'Egitto o fossimo morti in questo deserto!»” (Nm 14,2). Non potete non notare l’analogia tra il popolo che mormora contro Dio durante l’esperienza dell’Esodo e i Giudei che mormorano contro Gesù, nel presente testo evangelico. Credo di poter riconoscere in questo confronto tra i due episodi, l’affermazione implicita della Divinità di Gesù, come, del resto, appare evidente in tutto il quarto vangelo. I soggetti sono loro: Dio ed il popolo di Israele, nell’antico Testamento; Gesù ed i Giudei nel Nuovo Testamento.
Ma Gesù è ancora più esplicito in seguito. Infatti, dicendo “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”, si presenta come il Pane del Cielo, che proviene da Dio, dato per la vita degli uomini. Ma i giudei non intendono e rifiutano questo dono, guardando, ancora una volta, l’apparenza: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”.
La loro obiezione, a quanto pare evidente, punta non tanto sul fatto che Lui si è presentato come “Il pane della vita”, quanto sulle parole che seguono: “disceso dal cielo”.  Al di là delle apparenze, non sanno, o non vogliono sapere e vedere chi è Colui che sta di fronte a loro. Eppure, con il miracolo dei pani moltiplicati, avvenuto in precedenza, avrebbero potuto passare dal vedere al credere, ed il loro non sarebbe stato, certamente, un salto nel buio.

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Gesù replica ai suoi ascoltatori dicendo: “Non mormorate tra di voi”, evocando, con questo verbo, la mormorazione e l’incredulità del popolo di Israele durante l’esperienza dell’Esodo. Nella sua frase, “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”, c’è la locuzione ebraica  “venire a me”, che indica l'adesione ad una persona o ad un idea. Sta a significare anche il movimento tra l’ascoltatore attento ed il suo Maestro che lo chiama: Tra l’anima ed il suo Dio. Anch’essa evoca il tema centrale della storia biblica che verte sul rapporto Dio - popolo di Israele, che Gesù conosce molto bene. Nel libro dell’Esodo, infatti, è scritto: “Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me” (Es 19,3-4). Ciò che Dio dice ad Israele, con queste parole, Gesù ripete ai suoi ascoltatori di Galilea con il medesimo termine: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”.  I due verbi, venire ed attirare, mostrano il libero interagire tra la volontà Divina e quella umana. Dio chiama, ma l’uomo può anche rispondere di no, come i Giudei del testo evangelico. La fede è importante, direi fondamentale, per l’accoglienza del Figlio di Dio. Soltanto chi è attirato, dal Padre, può venire a Gesù. Ma per essere attirati è necessario esprimere il proprio assenso: l’accoglienza umile della voce dello Spirito. E sarà proprio tale mozione a permettere, a mio parere, l’unificazione delle due prospettive di interpretazione del brano evangelico: quella della Persona di Gesù e quella dell’Eucaristia.
Il brano evangelico si chiude con questa espressione di Gesù che incontra subito il disappunto dei suoi ascoltatori, cioè i Giudei di cui parla Giovanni: “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Un testo molto significativo, la cui autenticità non può essere messa in discussione, perché il suo stile “è così prettamente giovanneo – come sostiene Jeremias – che non gliene si può negare la paternità” (Joachim Jeremias, Le parole dell’ultima cena, Paideia Editrice Brescia, 1973, 129). Anzi, confrontando il versetto 51 con la prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto, non è  difficile riscontrare una sorprendente analogia tra i due testi e, quindi, riconoscere una tradizione eucaristica in questo testo di Giovanni, come vediamo ora:

Gv 6,51
Il pane che io darò
è la mia carne
per la vita del mondo
1Cor 11,24
Questo
è il mio corpo
che è per voi
La traduzione ufficiale, quella della CEI, non rende molto, ovviamente, l’analogia tra i due testi. Infatti, in Giovanni troviamo scritto al versetto 51: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51), mentre nella prima lettera ai Corinti, 11,24, è scritto: “Questo è il mio corpo, che è per voi” (1Cor 11,24).
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Diversamente dai vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca), dove è utilizzato il termine corpo, Giovanni usa la parola sarx, cioè, carne, intendendo sottolineare “l'aspetto fragile, realistico, della personalità di Gesù, che solidale con la storia umana è esposto alla morte. Questi due termini hanno alla base la parola ebraica bâsâr” (Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, Commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, 2008, 300).
Insomma è assolutamente probabile che nel testo del discorso eucaristico, riportato in Giovanni, sia contenuta una tradizione indipendente dai vangeli sinottici, contenente la formula interpretativa di Gesù sul pane. “Giovanni riporta, dunque, pur non menzionando l’istituzione della Cena del Signore, la parola interpretativa sul pane nella cornice di un discorso di Gesù” (Joachim Jeremias, Le parole dell’ultima cena, Paideia Editrice Brescia, 1973, 129). E la cosa interessante sarebbe proprio questa: alle parole di questa formula, Gesù ha fatto seguire la sua catechesi, la sua spiegazione sul valore di questi simboli.
In conclusione, il tema eucaristico già presente nei versetti precedenti, dal n. 51 comincia ad essere dominante. Appare ancora più forte il nesso tra la Passione del Signore e l’eucaristia, cioè il rendere grazie. Gesù appare in questo testo come il donatore e, nello stesso tempo come il dono.  
Ma torniamo all’introduzione di questa riflessione, nella quale ho accennato alle due prospettive di lettura ed interpretazione del mirabile insegnamento di Gesù, così come ci è ricordato da Giovanni nel suo Vangelo. Due diversi piani di ascolto: quello del popolo galilaico e quello del popolo cristiano; entrambi confluiscono, a mio parere, verso una sola, sublime realtà: la Persona di Gesù. Il primo piano d’ascolto pone l’uomo destinatario del suo inimitabile Messaggio, in atto di accogliere Lui come il Logos, il Verbo, la Parola di Dio fatta carne. Il secondo, collegato col primo, comporta un ulteriore salto di fede:  accogliere Gesù Figlio di Dio e credere in Lui come Donatore e Dono del Pane del Cielo: l’Eucaristia.
È lo stesso evangelista Giovanni ad accompagnarci, quasi per mano, nella scoperta di questa sublime realtà, ricordandoci, in seguito, che sarà lo stesso Spirito ad illuminare i credenti nella piena comprensione di tutte le inimitabili parole dette da Gesù ai suoi discepoli. Sarà Gesù stesso a dire: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16,13).

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