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Il Vangelo di Domenica 11 novembre. A cura di Donato Calabrese

9/11/2018

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XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
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(Mc 12,38-44)

Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave». E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro:  «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Sebbene l'episodio relativo all’obolo della vedova sia documentato solo dai vangeli di  Marco e Luca, e non sia presente in quello di Matteo, non gli si può negare una certa storicità, perché se non ci fosse stato un atteggiamento positivo di Gesù verso il tempio ed il culto, rappresentato qui dalle offerte verso il luogo sacro, “sarebbe incomprensibile il fatto che la comunità cristiana abbia avuto un centro importante in Gerusalemme e abbia continuato a prendere parte al culto del tempio” (Gerd Theissen, Annette Merz, Il Gesù storico, Ed. Queriniana, Ed. 1999, 727), come afferma Gerd Thiessen, uno dei grandi studiosi del Gesù storico.
Certamente l'episodio potrebbe dimostrare ancora di più l’antichità di questo Vangelo di Marco, rispetto a quei studiosi che lo datano addirittura dopo l’anno 70 d.C., quando il Tempio è stato distrutto dalle milizie romane di Tito.
La presentazione e la preservazione delle tradizioni cultuali del Tempio, non potrebbe essere spiegabile se lo stesso luogo di culto fosse stato distrutto e la drammatica vicenda della Diaspora degli ebrei, cioè il loro esodo nel mondo, non facesse più pensare alla ricostruzione dello stesso Tempio.  Abbiamo, quindi, una delle tante prove implicite dell'antichità di questo Vangelo di Marco. Un dato che concorderebbe con i risultati delle ricerche eseguite da insigni studiosi come Jean Carmignac, José O’ Callaghan, Carsten Peter Thiede, ed altri ancora. Ma veniamo allo sfondo geografico della vicenda evangelica.
Gerusalemme è il centro della religione ebraica e tutta la vita ruota attorno al Tempio Erodiano, detto così perché rinnovato ed ampliato da Erode il cosiddetto “grande”, a partire dal 19 a.C. e terminato completamente nel 64 d.C., sei anni prima della sua definitiva distruzione.
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Ma esiste un tempio materiale, fatto con pietre e gemme preziose, ed un tempio spirituale, dove Dio è presente in mezzo agli uomini, compiacendosi di tutti quelli che sperano in Lui e nella sua parola (Cfr. Sal 129,5). E mentre nel primo tempio, appare subito evidente il potere politico e religioso degli scribi, dei farisei e dei sadducei, nel secondo, che non è visibile, c’è l’autenticità di quel “Resto” (Cfr. Is 1,9; 10,20; 10,21; Ger 31,7; Mic 4,7; 5,6; Sof 3,13; ed altri ancora.) di Israele che costituisce la parte migliore del Popolo della Promessa. È il popolo degli anawim di Jahvé,  i poveri d’Israele, di cui Maria di Nazareth, la Mamma di Gesù, è l’emblema più alto e perfetto (Cfr. Lc 1,46-55), ma che appare ben raffigurato anche nell’episodio evangelico della vedova che depone l’offerta nel Tempio.
È il popolo dei “poveri di Jahvè”, i “servi di Dio”, coloro che temono Dio, che nella loro umiltà ripongono totale fiducia in Jahvè e che sul piano umano non godono di alcun prestigio. È il popolo ce vive ed osserva la Legge di quel Dio che ha pietà di quanti lo temono (Cfr. Sal 102,13), così come un padre ha pietà dei suoi figli, e come una Madre, che sa consolare i suoi figli (Cfr. Is 66,13), così è vicino a quanti lo amano. Nella Scrittura Sacra essi sono identificabili con la locuzione “resto d’Israele”. 
Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, è chiara la duplice distinzione di coloro che vivono il culto del Dio rivelato. I primi, cioè gli scribi e i farisei, sono apertamente condannati da Gesù, nel loro stesso centro vitale, a causa di una religiosità piuttosto esteriore e formale, fondata più sull’apparenza e sull’esibizione, che su una sincera ed appassionata adesione a Dio. I secondi, cioè il popolo degli anawim, sono ben raffigurati dall’umile vedova, la cui povera e genuina offerta al Tempio, permette a Gesù di offrire una insegnamento che supera l’umana valutazione, per cogliere il vero valore di ciò che l’uomo può offrire al Suo Dio. Non è la quantità dell’offerta presentata al tempio a determinare il suo valore, ma quanto costa, tale sacrificio, a chi lo compie. Torniamo all’inizio del brano.
Gesù dice: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”. 
Il fatto che gli scribi ed i farisei abbiano fama di pretendere che vengano loro riservati i posti migliori in tutte le assemblee, finanche in quelle locali e di villaggio, fa riflettere una situazione antecedente al 70 d.C. (Cfr. James D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo,La memoria di Gesù, 1 Fede e Gesù storico, Ed. Paideia, 2006, 323), e depone, ancora una volta, a favore dell’antichità di questo Vangelo di Marco.  

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Nel tempio di Gerusalemme, dove si trova con i suoi discepoli, Gesù attacca direttamente coloro che amano gli onori e il potere, seppure religioso, come gli scribi ed i farisei che amano farsi salutare sulle pubbliche piazze ed essere ai primi posti nelle assemblee. Essi credono di essere i primi ed i più vicini al Tempio e a Dio, ma vivono una religiosità piuttosto formale, esteriore, di consapevole superiorità verso gli altri, perché misurano la religiosità non solo con l’osservanza della Torah, la Legge di Dio, ma anche con l’adempimento di una miriade di precetti. Manca, allora, in loro, quell’intimo feeling  che nasce tra Dio e l’anima e viceversa, e che sta alla base del vero amore tra il Creatore e la creatura, tra il Dio della rivelazione biblica e il suo Popolo: l’amore gratuito. Manca in loro quanto c’è di più bello, intimo, profondo, sensibile, amorevole, tra Dio e l’uomo e viceversa.
Gesù va a sedersi di fronte al tesoro. Secondo la Mishna, che è la raccolta della tradizione e dell'insegnamento rabbinico, il cosiddetto tesoro consiste in tredici cassette delle elemosine, ubicate nel cortile detto delle donne, dove si depongono le offerte per il Santuario.  
Ed è qui, probabilmente, anche se il testo evangelico non lo dice, che la povera vedova depone la sua piccola, umile offerta, in una delle cassette.
Il suo è un gesto sfugge ai molti, ma non a Gesù che la segue col suo sguardo che va ben oltre le apparenze. E allora, chiamati a sé i discepoli, dice loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Non è la consistenza esterna dell’offerta, ma l’intenzione con la quale si offre, a dare valore a quanto si offre. Questo è abbastanza chiaro, ed è confermato dai Padri della Chiesa. Clemente Alessandrino (Cfr. Strom. IV, 6,35, 1)  insegna che Cristo considera ricco non il dono ma l’intenzione, e Giovanni Crisostomo (Cfr. Sulla Genesi, om. 27,3 PG 53, 243.) ribadisce che il Signore, nella sua bontà, non suole badare a quanto facciamo, ma all’intenzione interiore dalla quale siamo mossi a fare (Cfr. Francesco Trisoglio, Il Vangelo di Marco, alla luce dei Padri della Chiesa, Commenti spirituali del Nuovo Testamento, Città  Nuova Editrice, 2006, 242).

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Le parole di Gesù di Nazareth, figlio di Dio, sono eterne, e non passeranno.
Una società scristianizzata come la nostra non può rinascere a nuova vita senza rinnovare sé stessa dissetandosi alle sorgenti del Vangelo e alla stessa Vita Divina di Gesù Cristo.
Ma per rinascere a nuova vita dobbiamo partire dalla consapevolezza della nostra fragilità, umiltà, debolezza, e guardare all’esempio della vedova che depone la sua offerta al tempio con il cuore aperto e fiducioso, affidandosi all’amore di quel Dio che, come un padre ha pietà dei suoi figli, ha pietà ed amore per quanti lo temono (Cfr. Sal 102,13). E come una Madre che sa consolare i suoi figli (Cfr. Is 66,13), copre di tenerezza quanti si abbandonano sereni come bambini nel suo amore.
Dobbiamo scoprire il senso stesso del nostro esistere e del nostro vivere, ed abbracciare la Buona Novella di Gesù Cristo, per tornare ad una fede vissuta nell'interiorità e nella purezza dei sentimenti e con un sereno e schietto confronto con la Parola di Dio che ci interpella, e ci salva.
E chiudo con un pensiero rivolto a tutte le vedove ed a tutte le persone che soffrono. Anche se vivete la solitudine più disperante, non incurvate mai il vostro capo, perché Dio è con voi. Fidatevi di Lui. Fidiamoci di Lui. Dio non è assente, o lontano, da ognuno di noi. Egli ci ha rivelato il Suo mirabile Volto per mezzo del Suo Figlio Gesù.
Egli ci ama e noi non possiamo non rispondere, con il nostro dolore, al suo amore, perché l’amore col quale viviamo le nostre pene ci permette di offrire al Padre, per mezzo del Figlio, la prova più alta e sublime del nostro amore. “L’amore si conosce nel dolore”, disse Gesù a Padre Pio, nella sua amata Pietrelcina. Ed è nel dolore che possiamo dare la prova più grande dell’amore. È questa la mirabile realtà che manifesta l’amore di Dio per l’uomo e la risposta dell’uomo a quel Dio che si è fatto crocifiggere per lui: Ecco la prova più alta e mirabile dell’amore di Dio.

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