XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO |
Certamente l'episodio potrebbe dimostrare ancora di più l’antichità di questo Vangelo di Marco, rispetto a quei studiosi che lo datano addirittura dopo l’anno 70 d.C., quando il Tempio è stato distrutto dalle milizie romane di Tito.
La presentazione e la preservazione delle tradizioni cultuali del Tempio, non potrebbe essere spiegabile se lo stesso luogo di culto fosse stato distrutto e la drammatica vicenda della Diaspora degli ebrei, cioè il loro esodo nel mondo, non facesse più pensare alla ricostruzione dello stesso Tempio. Abbiamo, quindi, una delle tante prove implicite dell'antichità di questo Vangelo di Marco. Un dato che concorderebbe con i risultati delle ricerche eseguite da insigni studiosi come Jean Carmignac, José O’ Callaghan, Carsten Peter Thiede, ed altri ancora. Ma veniamo allo sfondo geografico della vicenda evangelica.
Gerusalemme è il centro della religione ebraica e tutta la vita ruota attorno al Tempio Erodiano, detto così perché rinnovato ed ampliato da Erode il cosiddetto “grande”, a partire dal 19 a.C. e terminato completamente nel 64 d.C., sei anni prima della sua definitiva distruzione.

È il popolo dei “poveri di Jahvè”, i “servi di Dio”, coloro che temono Dio, che nella loro umiltà ripongono totale fiducia in Jahvè e che sul piano umano non godono di alcun prestigio. È il popolo ce vive ed osserva la Legge di quel Dio che ha pietà di quanti lo temono (Cfr. Sal 102,13), così come un padre ha pietà dei suoi figli, e come una Madre, che sa consolare i suoi figli (Cfr. Is 66,13), così è vicino a quanti lo amano. Nella Scrittura Sacra essi sono identificabili con la locuzione “resto d’Israele”.
Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, è chiara la duplice distinzione di coloro che vivono il culto del Dio rivelato. I primi, cioè gli scribi e i farisei, sono apertamente condannati da Gesù, nel loro stesso centro vitale, a causa di una religiosità piuttosto esteriore e formale, fondata più sull’apparenza e sull’esibizione, che su una sincera ed appassionata adesione a Dio. I secondi, cioè il popolo degli anawim, sono ben raffigurati dall’umile vedova, la cui povera e genuina offerta al Tempio, permette a Gesù di offrire una insegnamento che supera l’umana valutazione, per cogliere il vero valore di ciò che l’uomo può offrire al Suo Dio. Non è la quantità dell’offerta presentata al tempio a determinare il suo valore, ma quanto costa, tale sacrificio, a chi lo compie. Torniamo all’inizio del brano.
Gesù dice: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”.
Il fatto che gli scribi ed i farisei abbiano fama di pretendere che vengano loro riservati i posti migliori in tutte le assemblee, finanche in quelle locali e di villaggio, fa riflettere una situazione antecedente al 70 d.C. (Cfr. James D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo,La memoria di Gesù, 1 Fede e Gesù storico, Ed. Paideia, 2006, 323), e depone, ancora una volta, a favore dell’antichità di questo Vangelo di Marco.

Gesù va a sedersi di fronte al tesoro. Secondo la Mishna, che è la raccolta della tradizione e dell'insegnamento rabbinico, il cosiddetto tesoro consiste in tredici cassette delle elemosine, ubicate nel cortile detto delle donne, dove si depongono le offerte per il Santuario.
Ed è qui, probabilmente, anche se il testo evangelico non lo dice, che la povera vedova depone la sua piccola, umile offerta, in una delle cassette.
Il suo è un gesto sfugge ai molti, ma non a Gesù che la segue col suo sguardo che va ben oltre le apparenze. E allora, chiamati a sé i discepoli, dice loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Non è la consistenza esterna dell’offerta, ma l’intenzione con la quale si offre, a dare valore a quanto si offre. Questo è abbastanza chiaro, ed è confermato dai Padri della Chiesa. Clemente Alessandrino (Cfr. Strom. IV, 6,35, 1) insegna che Cristo considera ricco non il dono ma l’intenzione, e Giovanni Crisostomo (Cfr. Sulla Genesi, om. 27,3 PG 53, 243.) ribadisce che il Signore, nella sua bontà, non suole badare a quanto facciamo, ma all’intenzione interiore dalla quale siamo mossi a fare (Cfr. Francesco Trisoglio, Il Vangelo di Marco, alla luce dei Padri della Chiesa, Commenti spirituali del Nuovo Testamento, Città Nuova Editrice, 2006, 242).

Una società scristianizzata come la nostra non può rinascere a nuova vita senza rinnovare sé stessa dissetandosi alle sorgenti del Vangelo e alla stessa Vita Divina di Gesù Cristo.
Ma per rinascere a nuova vita dobbiamo partire dalla consapevolezza della nostra fragilità, umiltà, debolezza, e guardare all’esempio della vedova che depone la sua offerta al tempio con il cuore aperto e fiducioso, affidandosi all’amore di quel Dio che, come un padre ha pietà dei suoi figli, ha pietà ed amore per quanti lo temono (Cfr. Sal 102,13). E come una Madre che sa consolare i suoi figli (Cfr. Is 66,13), copre di tenerezza quanti si abbandonano sereni come bambini nel suo amore.
Dobbiamo scoprire il senso stesso del nostro esistere e del nostro vivere, ed abbracciare la Buona Novella di Gesù Cristo, per tornare ad una fede vissuta nell'interiorità e nella purezza dei sentimenti e con un sereno e schietto confronto con la Parola di Dio che ci interpella, e ci salva.
E chiudo con un pensiero rivolto a tutte le vedove ed a tutte le persone che soffrono. Anche se vivete la solitudine più disperante, non incurvate mai il vostro capo, perché Dio è con voi. Fidatevi di Lui. Fidiamoci di Lui. Dio non è assente, o lontano, da ognuno di noi. Egli ci ha rivelato il Suo mirabile Volto per mezzo del Suo Figlio Gesù.
Egli ci ama e noi non possiamo non rispondere, con il nostro dolore, al suo amore, perché l’amore col quale viviamo le nostre pene ci permette di offrire al Padre, per mezzo del Figlio, la prova più alta e sublime del nostro amore. “L’amore si conosce nel dolore”, disse Gesù a Padre Pio, nella sua amata Pietrelcina. Ed è nel dolore che possiamo dare la prova più grande dell’amore. È questa la mirabile realtà che manifesta l’amore di Dio per l’uomo e la risposta dell’uomo a quel Dio che si è fatto crocifiggere per lui: Ecco la prova più alta e mirabile dell’amore di Dio.