TUTTI I SANTI |

Questo è il giorno in cui le menti e i cuori sono rivolti verso l’alto, dove saremo anche noi, nella pace di Dio, nella Sua Gioia e, soprattutto, inabissati nel Suo Amore trinitario. Non c’è una religione che ci parla in un modo così bello coinvolgente della Città Celeste.
E allora è giusto e bello rivolgere la nostra attenzione e venerazione a tutti coloro che ci hanno preceduto nella vita terrena, e in modo particolare ai nostri cari che sono lassù. Tutti quelli che abitano la Città di Dio sono Santi, perché “sono passati attraverso la grande tribolazione della vita, e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello”(Cfr. Ap 7,14). Quindi, anche i nostri cari che sono nella Casa del Padre sono Santi, perché sono passati nel crogiuolo dell'esistenza umana che li ha purificati e lavati nel sangue di Cristo (1Pt 1,19).
È conosciutissimo, il testo evangelico inserito nella liturgia di questa Solennità. Sono le Le beatitudini proclamate da Gesù all’inizio del sermone del monte, e introducono, come una sinfonia di speranza, tutto il discorso successivo di Gesù, e che, Giovanni Papini definisce, nella sua Storia di Cristo, “Il Diamante unico, rifulgente nel suo limpido splendore di pretta luce in mezzo alla colorata miseria degli smeraldi e degli zaffiri… il Canto dell’uomo nuovo”.

Davanti alle folle che cominciano a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano, Gesù si prepara a dare il Suo mirabile insegnamento, stando seduto, e quindi visto, dall’evangelista, nell’atteggiamento di Rabbi, di Maestro, davanti ai suoi discepoli.
Ai piedi di Gesù ci sono le folle di Galilea. Quelle stesse folle composte da gente semplice, dai poveri, dai malati, i diseredati, tutti coloro che sono ai margini della società ebraica, e non solo. Sono gli ‘anijjim, cioè i poveri, e gli ‘anawim, cioè i mansueti, i miti. I due termini ebraici dai suoni e dai significati abbastanza simili, sono tradotti in greco con due parole diverse: ptwcoˆ (ptôchoi) e prae‹j(praeis), ma, come scrive il Papa emerito Benedetto XVI, vengono in gran parte a coincidere. Infatti, la beatitudine dei mansueti evidenzia un aspetto essenziale di ciò che significa la povertà vissuta a partire da Dio e nella prospettiva di Dio. Entrambi i termini indicano i poveri in spirito, i miti, i cosiddetti “poveri di Dio”, coloro, cioè, che hanno poco o niente su cui contare per il presente ed il futuro e si abbandonano a Dio, come gli agnelli seguono con fiducia il loro Pastore.

Con le indimenticabili parole che introducono il Sermone della montagna, e che noi conosciamo come le beatitudini, Gesù parla direttamente al cuore degli uomini toccati dalle difficoltà e dalle pene di ogni giorno. Gesù vuole sostenere, consolare. “Veramente le le beatitudini ci fanno sentire meno soli, meno smarriti. Esse sono un grande messaggio di vita, anzi sono il senso stesso della vita, che è testimoniare con coraggio i valori umani, senza mai sottrarsi, sapendo bene che andremo incontro alla sofferenza, al pianto, alle umiliazioni, ma ne vale la pena. Gesù lo ha fatto. Con le beatitudini infatti Gesù rivela il suo vero volto, il volto umano di Dio, per cui si ha l’impressione che Gesù, oggi, in realtà parli di se stesso. Gesù queste beatitudini le ha incise nella sua stessa carne, anche se a volte ha tremato”. Così padre Galileo Babbini (Galileo Babbini, L’acqua dalla roccia, Omelie per l’anno liturgico A 1992-1993, 1995-1996, 1998-1999, raccolte e curate da Marcello Poli, Effatà Editrice, 2001, 260.).

Perché con la Salvezza che è venuto ad annunciare, Gesù riconosce un rapporto di particolare predilezione tra Dio e gli ascoltatori privilegiati delle Beatitudini, gli ascoltatori del Messaggio della montagna, tutti coloro, cioè, che mostrano limiti, difetti, insufficienze sociali, fisiche e morali.
I poveri, gli affamati, gli afflitti, coloro che soffrono, coloro che sono perseguitati, i bambini, sono dichiarati Beati da Gesù.
“I poveri vengono consolati adesso, non perché la loro condizione sia già cambiata, ma perché possono essere certi che Dio non li ha dimenticati e che il loro posto nel Suo Regno è assicurato”, come commenta James D.G. Dunn (Cfr. James D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo,La memoria di Gesù, 2 La missione di Gesù, Ed. Paideia, 2006, 454.).
Si, cari amici, da questo discorso pronunciato da Gesù nel cuore della Galilea, sgorga una linfa vitale che attraversa i cuori incalliti della vecchia umanità per trasformarli da “cuori di pietra” in “cuori di carne”, per portare un nuovo soffio, una nuova stagione che da duemila anni la sta rinnovando dal di dentro.

Lui è e sarà sempre povero, obbediente, puro di cuore, sereno nelle offese, paziente nelle ingiustizie, portatore di misericordia, di pace, di mitezza. Sarà perseguitato perché giusto, vero, onesto, vivendo anche momenti di afflizione e di pianto che sono tipici di ogni uomo (Cfr. Galileo Babbini, L’acqua dalla roccia, Omelie per l’anno liturgico A 1992-1993, 1995-1996, 1998-1999, raccolte e curate da Marcello Poli, Effatà Editrice, 2001, 260.).
Solo l’amore può dare la pace nel cuore all’anima che è segnata dalla povertà, dalla fragilità, dalla debolezza, dalla sofferenza. Solo l’amore può conferire un senso prezioso alla croce. Solo l’amore per Gesù, la partecipazione ai suoi patimenti e, soprattutto l’unione profonda con Lui, può ridare quella pace nel cuore che già ci fa sentire “Beati”, perché prediletti di Dio, destinatari prioritari del suo amore infinito, e predestinati alla salvezza.
Gesù si compiace comunicarsi alle anime semplici, alle anime che vivono in semplicità, ponendosi in ascolto dei suoi insegnamenti ed abbandonandosi con fiducia alla volontà di Dio.
Chi si lascia raggiungere dalle sublimi parole di Gesù, vive già ora la bellezza e la dolcezza delle beatitudini che indicano la Presenza del Regno: la Presenza di Dio nel nostro cuore.